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Wimbledon e dintorni: Kyrgios e Murray, il riscatto della Bellezza opposto alla sciatteria del tennis monocorde- di Teo Parini

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I Championships probabilmente più scontati da un sacco di tempo a questa parte causa penuria di alternative vincenti al robotico Djokovic stanno raccontando, almeno per chi ha la voglia di scovarle, due storie interessanti.
Andy Murray e Nick Kyrgios in comune hanno due cose soltanto, la mano baciata dagli dei e la capacità di non essere mai banali nelle esternazioni, per il resto a definirli antitetici si rischia di sbagliare per difetto.
Il primo ha vinto molto, quasi tutto, in un’epoca terribile per pensare di primeggiare. L’agone, oltre ha regalargli enormi soddisfazioni, gli ha distrutto l’anca spingendolo a mettere chirurgicamente mano laddove per solito fa ricorso la terza età. Ha sofferto le pene dell’inferno ricominciando da zero nel pantano dei Challenger, dove si sgomita per pochi punti e pochissimi euro, pur di darsi un’altra possibilità. Con umiltà e debordante attaccamento al gioco, Murray ha digerito carichi di lavoro e situazioni dolorifiche indicibili ridimensionando le ambizioni ma non la voglia di vincere e con ormai diverse primavere sulle spalle lo abbiamo ritrovato sui prati di Church Road, la sua casa, felice come un bambino. Due turni, due avversari modesti ma non arrendevoli, due battaglie. E un insegnamento: dove non arrivano le gambe, per chi incarna l’arte della sofferenza, ci pensa il cuore. E Andy ne ha uno gigante.
Nick Kyrgios, invece, di salute ne ha da vendere. Forse troppa, perché correre dietro alla pallina con la pancia da bevitore di birra professionista dev’essere davvero una faticaccia. Di lui si erano perse le tracce dall’estate australiana, ormai sei mesi fa, in uno Slam giochicchiato tutto sommato benino e interrotto dalla poca desuetudine allo sforzo più che dalla bravura altrui. Lui, al contrario, da abnegazione e sofferenza ha deciso di stare alla larga come dalla peste perché il tennis è solo un gioco e le cose importanti sono decisamente altre.
Portare un pasto ai bisognosi nei giorni più duri del Covid, per esempio, o tirar tardi con gli amici a raccontarsela al bar alla stregua di un qualsiasi ventenne che si nutre di vita. Insomma, ha sempre qualche cosa di meglio a cui pensare che non scalare le gerarchie di uno sport costretto a praticare malvolentieri da una bravura intrinseca difficilmente quantificabile. A Nick viene facile colpire una pallina come solo a un pugno di selezionati colleghi nell’Era open e senza mai prendersi troppo sul serio porta a casa la comunque ricca pagnotta senza mai scordarsi degli ultimi. Perché a definirlo sbruffone, come del resto fanno in tanti, si dimostra di non aver capito nulla di lui oltre che una scarsa sensibilità. Al pari di Murray si è assicurato l’approdo al terzo turno di Wimbledon – quella con Humbert all’esordio rischia seriamente di essere fin da ora la partita più deliziosa del torneo – e non nutre ambizioni di trionfo perché conscio che, a non ricaricarle, le batterie prima o poi ti lasciano a piedi. Ma c’è e per vedere cinque minuti di tennis ben fatto conviene ronzargli intorno, magari non durante la notte.
Se il primo, che negli anni belli ha saputo incanalare il talento sulla via della redditività, è il lato romantico, forse nostalgico, da gustare sorseggiando il tè delle cinque, la sua antitesi bizzarra è la vana speranza che, salutato Federer per sopraggiunti limiti anagrafici, l’erba di Wimbledon possa tornare a celebrare la bellezza dell’esercizio regale che fu di Bill Tilden. Il gusto impareggiabile delle fragole con la panna.
Insomma, Wimbledon passa innanzitutto da qui. Il resto è solo tennis.
Teo Parini

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