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Vika Azarenka, una racchetta, la Bielorussia.. e un AK 47 – di Teo Parini

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Una decade fa, o forse qualcosa in meno, atterrando nella meravigliosa Minsk non era inusuale imbattersi in un curioso ma azzeccato binomio fotografico. Sulle facciate dei palazzi dell’ultimo avamposto socialista d’Europa campeggiava infatti una doppia gigantografia: da una parte Alexander Lukashenko detto Batka, il piccolo padre, Presidente della Repubblica di Bielorussia, dall’altra Victoria Azarenka, la Vika del tennis. Uno imbracciava l’AK47, altresì definita arma della libertà, l’altra una racchetta capace di trasformare palline in traccianti. Le due personalità più note dell’ex costola sovietica ad accogliere il viandante.

Il 30 gennaio del 2012, Vika, dopo aver trionfato a Melbourne nel suo primo Major della carriera, si inerpicava fino al numero uno delle classifiche mondiali guardando tutte le colleghe dall’alto, forte di un gioco tecnicamente ineccepibile e di una grinta capace di spostare le montagne. L’impatto della bielorussa sul pianeta tennis pareva di quelli destinati a instaurare una dittatura ma la storia, da lì a poco, prese una piega differente. Non prima, però, di aver raccontato di un secondo Happy Slam e diversi altri titoli del circuito maggiore. Vika è una stella, acclamata e multimilionaria, icona del circus in gonnella.
Estate 2016. Azarenka, al rientro agonistico dopo qualche noia di salute piuttosto insistente, sta giocando di nuovo il suo miglior tennis. Al punto che solo qualche settimana prima, sul rovente cemento nordamericano, ha completato il Double Sunshine, ovvero la prestigiosa accoppiata Indian Wells e Miami, un’impresa sportiva con non più di una manciata di precedenti. All’epoca ventiseienne, Vika, determinata a riprendersi il posto al sole che le spetta per genesi tennistica, annuncia inaspettatamente un nuovo stop: questa volta è in dolce attesa. Lei e il fidanzato saranno genitori entro la fine dell’anno e, secondo previsioni, poco prima di Natale nasce Leo. Una gioia.
Il padre è tale Billy McKeague, giocatore di hockey e intrattenitore nei villaggi a cinque stelle, gran fisico e volto da rivista patinata. Quando il piccolo Leo vede la luce il rapporto di coppia è però già in frantumi, tanto che Vika, a luglio, appare a Wimbledon sola e con figlio a seguito. Lei si allena sui prati di Church Road e lui osserva da bordo campo, in un quadro apparentemente sereno. Apparentemente. Un mese dopo, l’inevitabile separazione, con il padre lesto – diciamo così – a chiedere l’affidamento del bimbo dopo una campagna denigratoria rivolta alla madre di rara intensità. È un pasticcio legale dai risvolti psicologici facilmente immaginabili quando il tribunale di Los Angeles, in un primo incomprensibile step, accoglie le richieste paterne. Il ginepraio giuridico che la inchioda in California a mo’ di prigione è una mina nella quotidianità di Vika e il tennis, parte inscindibile di essa, smette di essere una priorità, con il ritiro prematuro che pare essere l’unica conclusione plausibile. Pare.
Ci vogliono due anni, un’eternità, per rivedere Azarenka in campo, sebbene su livelli di rendimento lontani anni luce da quelli di un passato luminescente. Vika è magrissima, scavata in volto, atleticamente fragile, e la sensazione è che anche le motivazioni non siano più adeguate alla professione il cui carburante è prima la mente e poi tutto il resto. Si impegna, corre, suda, riversa in campo ciò che ha ma non è lei. Grugnisce come ai tempi belli ma il grunting che fu grido di battaglia ora è solo un suono, quasi di dolore. La sua cifra stilistica, il ritmo indiavolato, non c’è più. Come se Maradona si svegliasse un mattino senza il piede sinistro. A complicare le cose anche gli strascichi di una brutta malattia della mamma, perché le sfighe, si sa, pare abbiano sempre la predisposizione a picchiare duro sulle ferite aperte. Ma se c’è fuoco che un pompiere non possa domare è quello che arde in un campione a cui Chronos concede per anagrafica una seconda possibilità. Vika lo sa.
Il mondo nel frattempo non è più lo stesso, ribaltato come un calzino dal virus che attacca a morte i polmoni e, marginalmente, costringe lo sport a rivedere sé stesso. Per lunghi mesi il tennis è in stand by e quando ha modo di ripartire il clima è surreale. Si comincia a fare sul serio a Cincinnati, giusto una manciata di giorni fa. Anzi, per la verità siamo a New York ma la settimana assegna comunque il titolo della città dell’Ohio in attesa di dar seguito alla stagione sui generis con lo Slam newyorchese. Si gioca a porte chiuse e fa ancora più specie nel tempio del frastuono trasformato in un sarcofago di silenzio che gli yankees, e il loro folklore, chiamano bubble, la bolla. Perché il Covid fa paura, anche dove si cerca goffamente di negare il problema.
Azarenka, in un contesto nuovo di zecca per tutti, imbraccia la racchetta con un piglio ritrovato, lo dicono gli occhi. E i muscoli, tornati a definire compiutamente la sagoma di una guerriera. Il resto è attualità. Nove successi filati, molti dei quali incamerati con la scioltezza dei grandi, le valgono intanto il Premier 5 di Cincinnati e poi la semifinale degli US Open. Quella nobile, che più nobile non si può, contro l’immortale Serena Williams, ancora tutta da disputare. Quanto basta per attestare la rinascita sportiva di un’atleta fuori dal comune.
Nei giorni in cui l’emisfero occidentale tenta di impadronirsi della Bielorussia e della sua sovranità, un orgoglio nazionale – già insignita dell’Order of Honor quando tutto sembrava essere passato agli archivi – torna a vestire i panni di un fattore dominante del tennis. Se è vero, parafrasando Nietzsche, che ciò che non uccide fortifica, Victoria Azarenka da Minsk oggi ha insite nei cromosomi le peculiarità dell’acciaio: resistenza, resilienza e duttilità. Una notizia poco rassicurante per coloro che nutrono ambizioni di gloria.
Una bella vicenda, perché nulla è più emozionante di quando uno sport magnifico torna ad abbracciare un campione che sembrava smarrito e Vika l’inferno lo ha visto da vicino. Ma adesso scalpita di nuovo.
Teo Parini

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