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Vestigia Affreschi urbani: abitare sulla terra e sotto il cielo. Lettera aperta di E.T. al sindaco Chiara Calati

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Il nostro E.T. avanza al Sindaco una concreta proposta di decoro urbano. Partendo dalle vie della nostra Città. Perchè – scrive Emanuele Torreggiani in questa nota – “restituire memoria alle vie della città con gli affreschi possibili rientra appieno in quell’impianto di ricerca che si è tentato di costruire in queste righe”.

Illustre Signor Sindaco

Città di Magenta

Dottoressa Chiara Calati

 

Signora Sindaco consideri, in caso, queste righe come una modesta collaborazione, dichiaratamente, disinteressata.

Grazie.

 

Vestigia

Affreschi urbani: abitare sulla terra e sotto il cielo (*)

 

“La bellezza salverà il mondo”

 Il Principe Myškin

L’Idiota

Fëdor Michajlovič Dostoevskij

 Ricognizione

Dostoevskij, nel romanzo L’idiota, conclude in modo insuperabile la tematica che riguarda la bellezza. Il principe Myškin, personaggio centrale del romanzo, dichiara che la bellezza non può né deve redimere la vita dalla sua esigua finitezza. Ma passando attraverso quelle sofferenze e quei dolori che rendono amara la vita, la bellezza, salva la vita. E qui, necessariamente, il salvare significa fondare. La bellezza fonda la vita. Perché la salva. Da cui la necessità dell’epigrafe: “La bellezza salverà il mondo”. L’arte ed il suo farsi carico di esperienza, il suo attualizzarsi in eredità spirituale, quando il verosimile assume l’essenza di più vero del vero, fonda l’aurorale salvezza.

La bellezza estetica pertanto coincide con l’etica. Pertanto la proposizione del Grande Russo coincide con la definizione di Aristotele. Il Grande Logico che andava dichiarando: “tutto ciò che è bello è giusto”.

Bellezza e giustizia, dunque. E se si leggesse la determinazione nella sua scansione logica, la bellezza (l’estetica) precede, l’etica. Perché annega le sue radici vivificanti nel principio di verità ontologica dell’essere. L’estetica fonda l’etica, ch’è il suo abitare. L’abitare dell’uomo.

Si ritiene di titolare Vestigia questa breve ricognizione, perché il nostro territorio, la nostra patria, è un luogo in cui, per l’ovunque, si manifestano tracce. Abbondano abbandonate per l’ovunque. Esse emergono alla vista non distratta che si sottrae al dominio della cosiddetta informazione generalista che distrae, e distraendo invita a perdersi in mille rivoli di spunti polemici e decostruttivi. Abbiamo imparato, da Eraclito, che l’asino prende la paglia, anziché l’oro.

Ecco, sappiamo che si vede solo quello che si sa. E le tracce, di cui si scrive, svaniscono nelle ombre di un permanente tramonto, pur tuttavia esse sono state ed esse sono. Continuamente, rimarchevoli. Le vestigia, insomma, appaiono a nostre vesti. Andrebbero re-indossate. Ovviamente contestualizzando il fare.

Le tracce non sono solamente la nostra storia composta. Esse rappresentano, concretamente, il nostro destino. Sino all’attuale. E s’intenda, per destino, l’essenza del nostro essere. Il tentativo di conficcare il nostro seme nel divenire costante della storia. E di lasciare che cresca e sia marca incancellabile.

Per chi scrive l’uomo è un essere spirituale. Le vestigia dicono di noi. Ci hanno parlato a lungo e fremono, desiderano poter tornare ad imbastire con noi il colloquio interrotto. Ma il loro dire, oggi, ci giunge in un sottovoce indistinguibile nel frastuono imperante. Nel nostro tempo polifemico rifiutiamo, o peggio ancora divoriamo, ogni ospite, sia pure la nostra anima. Un occhio solo al centro della fronte denota il solo dovere biologico, l’inesistente prospettiva, l’orizzonte piatto, l’assenza di navigazione. La tenebra illune.

Ogni traccia, pur anche esigua, è significativa di un vissuto. Di un tempo in cui lo spazio è stato abitato da uomini le cui impronte si stanno sbiadendo e, soprattutto nell’enigmatico oggi, sembra vadano perdute. O meglio, pur permanendo non appaiono più, nell’immediatezza della lettura.

Lo scopo dichiarato di queste righe è quello di ri-portare, al centro della meraviglia collettiva, il valore delle vestigia di cui il nostro passato, prossimo e remoto, è depositario.

 

Narrazione metropolitana

Considerando l’enormità della storia in cui l’Italia è immersa, viene spontanea, la concreta possibilità di trasportare l’affresco, dal chiuso delle stanze, all’aperto.

“Quindi poeticamente, e con pieno merito, l’uomo abita questa terra”, scrive Friedrich Hölderlin. E quando noi leggiamo “sulla terra” intuiamo, precisamente, “sotto il cielo”. La terra sta sotto il cielo. E qui che si comprende l’ontologica natura del “poeticamente abitare” che si riappropria della sua potente semantica originaria: il fare. L’uomo, per essere uomo, fa. Cioè abita. Il suo abitare si fonde con l’humus, l’umiltà ch’è anche la terra, e ne sovviene l’umano abitato: la necessità dell’eterno. L’abito, poi che s’indossa. Si abita il dolore per comprenderlo e lo si elabora, spiritualmente pertanto artisticamente, per condividerlo.

Il fare umano, il suo manipolare la materia che perisce, è il fare autentico in tensione verso la sua essenza eterna.

Cantando la morte, l’atto estetico del canto dà la vita. Non nel senso che la restituisce, ma la mantiene viva in questa vita. E traduce così il dolore della morte in amore.

In ogni dove, nel nostro territorio, la toponomastica prende il nome da uomini che fecero amara la loro esistenza quand’anche n’ebbero postuma gloria. Poi, sappiamo della “cruenta polvere” che plana per l’ovunque. Insomma, per dirla tutta e subito, le vie, per noi, son urne.

E quindi trasportiamo sulla strada, alla vista del passante occasionale e del residente, del forestiero di frettoloso passo, l’immagine che il nome della via dichiara. Ora, per l’incuria di uno cui segue l’incuria di tutti, non più nome e cognome, data natale e mortale e, in catenaccio, la motivazione per la memoria. Con fastidiosa frequenza, per l’ovunque, il solo cognome si legge. E poiché ogni causa produce l’effetto suo, si dimostra, a lui e direttamente a tutti noi, “lorda” memoria.

C’è un nome, tra i moltissimi, ch’è a noi lievemente più caro, sarà che scrisse senza mercede, sarà che nei manuali di storia al suo seguono poche righe: Silvio Pellico. Il ritratto è l’anima della cultura occidentale. Il vero ritratto guarda, interroga e non lascia dormire.

Restituire memoria alle vie della città con gli affreschi possibili rientra appieno in quell’impianto di ricerca che si è tentato di costruire in queste righe.

ALCUNE ESEMPI…DA CUI PARTIRE

< Adiacente Casa Giacobbe insiste una anonima palestra. Ecco, il muro della stessa è già una grezza tela per reimpostare una rivisitazione del ‘Campo di battaglia’ alla maniera di Giovanni Fattori.

All’interno del Liceo Classico, due piani e mezzo di impennata in stolido grigio, altra grezza per ricostruire una rivisitazione della città alla maniera di Carlo Bossoli con la prospettiva della direttiva nord (via Milano) in cui si scorgono i due campanili allora esistenti in città: l’Assunta e quello di Santa Maria della Pace.

Al fondale del medesimo cortile la struttura in orizzontale dell’acquedotto. Già una tavola su cui lavorare al ritratto del Pellico ed all’amico fraterno suo il Marroncelli. Pellico scrisse “Le mie prigioni” intingendo il pennino nel proprio sangue.

 I sottopassi: grigi e luridi. Quale occasione per reinterpretarli richiamando la storia della strada ferrata. E così…>.

Cordialmente

Emanuele Torreggiani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(*) Lo scritto, tutto, presuppone l’iniziale preposizione: “a mio avviso”.

 

 

Magenta, 5 Luglio 2017

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