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Us Open, una finale da sbadigli consegna la vittoria a Thiem- di Teo Parini

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Domenica 13 settembre, New York. Lo Slam più surreale di sempre manda in scena l’atto conclusivo, gli spalti sono deserti e tutto sommato è un bene. A contendersi il titolo sono Thiem, al suo quarto assalto al cielo ma questa volta senza un Fab 3 tra i piedi, e Zverev, un neofita. Il primo, se la smettesse di essere Federer l’unità di misura della disciplina, diremmo giochi spesso un gran tennis; l’altro molto di meno, ma non è certo colpa sua se la concorrenza riesce anche a fare peggio. In ogni caso il ricambio generazionale passa anche da qui, con tutte le titubanze del caso.
Thiem si sente favorito, così tanto da regalare in preda agli incubi due set, i primi, a un avversario che ai blocchi di partenza si presenta con meno pressione addosso. L’omaggio sortisce gli effetti immaginabili: Thiem, con un piede giù dal cornicione, non avendo più nulla da perdere entra in partita e Zverev, assaporando la vittoria, pian piano ne esce. Quel che non cambia è la bruttura del match in uno sport che, altrove, sa essere meraviglioso, e senza che vi sia nulla di entusiasmante da raccontare i contendenti si ritrovano in parità con un parziale decisivo alle porte che diventa un fardello insostenibile per entrambi. E pure per gli spettatori sul divano sempre più pentiti di aver sacrificato qualche ora di sonno.
(Photo by Matthew Stockman/Getty Images)
Il fisico, cromosomica cifra stilistica dell’austriaco, latita. Forse crampi, forse il fastidio al piede già palesato in semifinale. Morale, Mimmo si trascina per il campo, non spinge i colpi rifugiandosi in un rovescio tagliato di mirabile inefficacia. Dall’altra parte, più che la salute, a mancare è il coraggio e il deficit caratteriale costa a Sasha una miriade di doppi falli e di scelte tattiche che a definire discutibili si sbaglia per difetto. Il mix è letale, tra scambi arrafazzonati da seconda categoria e servizi al rallentatore, lo strazio dura fino al tie-break decisivo dove a prevalere è con merito, se non altro per la tigna, Thiem, al terzo match point.
Thiem solleva così il trofeo più importante della carriera e l’augurio è che l’aver rotto il ghiaccio con il tabù Major possa ulteriormente migliorarlo come tennista. Zverev, che uno Slam finirà per vincerlo prima o poi, non fosse altro per assenza di alternative concrete e per anagrafica favorevole, avrà invece di che studiare riguardando il match con la dovuta calma. Un campione messo sotto pressione deve necessariamente alzare l’asticella del gioco o non è tale, ma non sarebbe un dramma.
Bisogna essere onesti. Se il livello di una finale Slam è questo – benché troppo brutto per essere vero – Federer, Djokovic e Nadal potrebbero continuare a dominare fino a cinquant’anni e con una mano legata dietro alla schiena. E chi, nonostante tutto, pensa sempre allo sciagurato Kyrgios come scialuppa di salvezza per la disciplina che fu di Bill Tilden alla disperata ricerca di talento, mai come oggi dimostra di avere validi argomenti. Vincere sarà anche l’unica cosa che conta ma l’occhio esige la sua parte.
Teo Parini

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