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UrbanaMente Giovani: l’incontro con il professor Mancini e l’uscita al teatro Strehler

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MAGENTA – Nell’auditorium del Liceo Scientifico Bramante martedì 4 febbraio Giuseppe Langella, professore di letteratura italiana contemporanea all’Università Cattolica di Milano, ha introdotto questo tema: la città è collisione o condivisione? Richiamando i capolavori letterari di Vittorini e Calvino, Giuseppe Langella ha accompagnato la riflessione finora centrata sull’IO dentro la dimensione relazionale della polis e ha posto la domanda radicale: quali sono le ragioni fondanti di una città? Ogni città ha una sua ratio, una sua motivazione, una sua ragione d’essere e di agire: la bellezza degli edifici, la posizione geografica, la qualità della vita, le meraviglie della natura; ogni città possiede una propria idea di convivenza civile su cui si regge. Certo non siamo tanto ingenui da credere che possa esistere una città ideale, ma un’idea condivisa da inseguire può essere utile per disegnare la rotta.

Immediata sorge la domanda riguardo alla nostra identità: qual è la ratio delle nostre città? Quali necessità, quali bisogni, quali sogni, quali progetti per un territorio che lascia alle spalle un tempo finito, quello dello sviluppo industriale, e guarda avanti verso un tempo che ancora non è facile immaginare?

Alcuni giovani sono già oltre la domanda, cercano di conoscere e apprendere, discutono e si confrontano in classe, osano gettarsi in avanti e si mettono alla prova, cercano di elaborare le esperienze offerte loro dalla scuola e anticipano riflessioni su temi di una realtà possibile.

Ecco alcune di queste riflessioni.

Da Lucrezio a Mancini: una riflessione ancora attuale

Riferendosi a Epicuro, così scriveva Lucrezio nel De rerum natura: “tu ci fornisci insegnamenti paterni e dalle tue carte […] noi assimiliamo tutte le auree parole, auree, sempre assolutamente degne di vita perpetua.” Da qui nasce lo spunto per chiedersi se tuttora la filosofia sia uno studio attuale e per provare a capire se effettivamente quelle “auree parole” siano eterne come affermava l’autore latino del I sec. a.C.

In merito a questa disputa ci corrono in soccorso le parole di Roberto Mancini (foto sopra), professore di Filosofia teoretica e Culture della sostenibilità, che ha tenuto la serata di UrbanaMente del 21 Gennaio dal titolo “Io: un mondo nel mondo”. Mancini dà avvio alla sua riflessione definendo la filosofia come attitudine di ricerca, specificatamente propria dell’uomo che ha bisogno di senso per poter vivere: far filosofia significa conoscere sé stessi in rapporto alla verità. Ed è proprio la filosofia che accompagna e guida l’uomo in quel percorso e processo di riconoscimento del proprio io in relazione a un tu, non più a un altro visto spesso come un nemico ostile. Ecco quindi che si può parlare di un “io salvato”, non schiacciato dal potere che, in ultima istanza, non si rivela essere nient’altro se non una forma di schiavitù, un io libero, ovvero fedele a se stesso, in quanto la libertà, come sosteneva Hegel, è autorealizzazione e infine un io che si mette al servizio di altri, un io non egoistico, capace di inserirsi nella trama sociale.

Ma chi ci insegna a diventare, a essere un io salvato? Forse la scuola che invece è sempre più orientata al fornirci competenze? Competenze per cosa poi, per saper vivere in un mondo in cui ormai vige la tecnocrazia, in un mondo sempre più veloce e schiavo del potere? Allora forse davvero deve tornare attuale il pensiero filosofico, capace di insegnarci ad essere, più che a essere meri ingranaggi di un meccanismo che abbiamo l’illusione di poter controllare. Allora forse ha ragione Lucrezio a definire quelle “auree parole” degne di vita perpetua, perché mai dovrebbe spegnersi in noi l’atteggiamento filosofico, il solo che ci permette di essere unici e fedeli alla nostra integrale originalità.

Giulia Accardo Classe 5° B Liceo Classico Quasimodo

 

Un nemico del popolo

Le classi quarte e quinte del Quasimodo hanno assistito al teatro Strehler allo spettacolo “Un nemico del popolo”, con la regia di Massimo Popolizio. Noi ragazzi siamo stati talmente colpiti ed interessati dalla messa in scena da discuterne animatamente in classe.

Lo spettacolo presenta davvero molti spunti di riflessione: tra questi innanzitutto il contrasto tra apparenza e realtà, tra scienza e politica. Nella finzione teatrale la vicenda si sviluppa attorno ad una semplice questione: come agire di fronte alla realtà dell’inquinamento delle acque termali? Essere sinceri col popolo per salvaguardarne la salute o tacere per continuare a guadagnare alti profitti dalla benefica fonte termale? Il dottore fin da subito vuole dire la verità e all’inizio sembra essere appoggiato dalla maggioranza del popolo e dai dirigenti del giornale “La voce del popolo”, mentre il politico, suo fratello, vuole occultare la verità per mantenere i propri guadagni. Alla fine il politico ha la meglio e il dottore rimane emarginato.

La domanda sorge dunque spontanea: la scienza è buona e la politica è cattiva? La risposta non è così ovvia ed immediata: la scienza in sé è oggettiva, ma deve anche porsi la responsabilità etica delle proprie scoperte e gli scienziati a volte lo fanno, ma a volte no. Se nella scienza, pur avendo dati oggettivi, gioca la componente umana, nella politica questo accade ancor di più: gli uomini hanno pensieri molto diversi tra loro, ma tristemente molto spesso la politica si orienta verso la scelta più vantaggiosa dal punto di vista economico. In questo senso si potrebbe dire che il politico dello spettacolo incarni il concetto di alienazione rispetto al capitale, esposto dal filosofo Karl Marx, un’alienazione che però arriva a coinvolgere anche i rapporti sociali: infatti i due fratelli arrivano quasi a dimenticarsi di essere parenti, pur di prevalere.

 

Il secondo tema fondamentale trattato nell’opera teatrale riguarda la cosiddetta maggioranza: si arriva addirittura a mettere in dubbio la democrazia rappresentativa. In un paese in cui il popolo non riesce a formarsi un’idea autonoma, essendo continuamente influenzato dai demagoghi o da una stampa non super partes, è giusto concedere a tutti il diritto di voto oppure risulterebbe migliore un governo affidato a pochi saggi, come teorizzato da Platone? La risposta a cui noi studenti siamo giunti è che “Il popolo va educato ad essere popolo”, come si dice nella rappresentazione teatrale. Ma come si può educare un popolo? Per prima cosa bisogna far comprendere a tutti l’importanza del voto, perché molto spesso le persone non si sentono responsabili e quindi o non votano o lo fanno senza essersi prima informate; in secondo luogo è appunto l’informazione e l’educazione a mancare. Un popolo saggio come quello degli antichi Greci si informava ascoltando le parole di esperti prima di prendere una qualsiasi decisione che potesse ricadere sulla collettività: questa potrebbe essere una buona strada da percorrere per arrivare alla consapevolezza.

La scuola in questo contesto gioca un ruolo importantissimo: essendo sempre bombardati da troppe notizie, talvolta discordanti, ognuno deve imparare ad attivare il proprio senso critico.

Melissa Morone

Classe 5A Liceo Classico Quasimodo

 

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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