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Urbanamente Giovani – A che cosa servono i poeti?

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

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 Un viaggio nel tempo per andare a scoprire e conoscere queste figure…un po’ particolari.

 

Nell’antica Grecia, i poeti erano figure degne di rispetto e venerazione in quanto depositari di facoltà divine e strumenti di rivelazione agli uomini di verità superiori: basti pensare alla famosa invocazione alla Musa di Omero (che poi diventerà addirittura un topos letterario) o al fatto che lo stesso Esiodo dica di essere stato investito del ruolo di poeta direttamente dalle Muse sul monte Elicone. Il poeta ha poi continuato a godere di questa sua intrinseca sacralità per secoli e secoli, almeno fino a quando nell’Ottocento le cose hanno iniziato a girare in modo diverso. Ma cosa sarà mai successo per far sì che il poeta venisse spodestato dal suo ruolo?

L’Ottocento é da ricordare come un secolo di radicali cambiamenti, soprattutto nel suo ultimo trentennio con la nascita della società massificata: l’intellettuale diventa uno tra tanti, non ha più quel ruolo di poeta-vate ereditato da Dante, è relegato ai margini della società ed è privo di un proprio messaggio. Leopardi e Baudelaire sono i primi a tentare di ridefinire il ruolo del poeta: rimane l’idea che il poeta abbia un dono, per così dire, speciale, che lo rende diverso dagli altri e proprio per questo, però, non più apprezzato dalla società in cui vive.

Il Novecento sarà poi il secolo per eccellenza del crollo delle certezze, dell’esaurimento di ogni residuo positivistico, dello smantellamento e della frantumazione dell’io. Lo scrittore e l’artista si trovano spesso declassati a una condizione piccolo borghese, privati del peso sociale e del prestigio di cui godevano in passato. Da questa condizione sociale scaturisce uno stato d’animo di smarrimento angoscioso di fronte alla complessità dell’età moderna. Il “fanciullino” di Pascoli e il “superuomo” di d’Annunzio rappresentano due diverse risposte a questa stessa crisi. Il mito del “fanciullino” finisce per essere un mito consolatorio, d’evasione, che esprime un rifiuto della società e della storia, un bisogno di regressione alla condizione sicura del nido familiare. D’Annunzio, col mito del “superuomo”, reagisce invece in modo contrario, non fuggendo, ma attraversando la crisi: decide di celebrare proprio ciò che fa paura, trasformando l’impotenza in “delirio di onnipotenza”. Saranno poi i poeti crepuscolari a mettere nuovamente in discussione il valore della poesia e il ruolo sociale del poeta: non riconoscendosi più nel modello interpretato da d’Annunzio, affermeranno di non essere altro se non “fanciulli che piangono”.

Fondamentale per comprendere il ruolo del poeta è anche il potere che si dà alla sua parola. Se da una parte abbiamo poeti come d’Annunzio che mira a cogliere, attraverso la parola, l’armonia della natura in un rapporto panico con essa, come Pascoli che attraverso un sistema di simboli e richiami svela i significati più nascosti delle cose o come Ungaretti che attribuisce alla parola ricercata ed essenziale il potere magico di esprimere l’inesprimibile, dall’altra abbiamo un poeta come Montale che non crede più nella capacità della parola poetica di dare risposte all’uomo, di esprimere la realtà, di avere “la formula che mondi possa aprirti”.

Ma veniamo al dunque. Oggi che ruolo ha il poeta? È tornato ad essere una figura di prestigio o forse ancora si trova ai margini della società?

Alda Merini, poetessa della seconda metà del Novecento, ha riflettuto a lungo su questo tema, arrivando a formularlo nella poesia “I poeti lavorano di notte”. La Merini ci mette davanti a una realtà forse scomoda da accettare: essere un poeta è un lavoro. Un lavoro, però, un po’ diverso da quelli che tutti abbiamo in mente. Il poeta infatti lavora di notte, lavora al buio, lontano dalla folla, in un tempo senza tempo, nel quale, dimenticandosi la razionalità, riesce a guardarsi dentro per indagare la sua interiorità, il suo “porto sepolto”, senza il timore di scoprirvi anche il male e il dolore.

La voce del poeta, dolce come quella di un usignolo, si fa creatrice di mondi cantando l’anima di tutti gli uomini, si fa arma, scudo e salvezza. “I poeti nel loro silenzio/fanno ben più rumore/ di una dorata cupola di stelle”, così recitano i versi finali della poesia, manifesto universale del ruolo del poeta: la poesia dovrebbe far rumore, dovrebbe esplodere in un “silenzio rumoroso”, scuotere gli animi di quelli che leggono e farci sognare a ogni parola. E se è vero che oggi più che mai abbiamo bisogno di ascoltare la voce dei poeti, forse è anche vero che noi stessi dobbiamo farci tali, dobbiamo prendere le redini della nostra anima e imparare a raccontarci.

                                           Giulia Accardo- VB Liceo Classico Quasimodo

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