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Una vecchia storia di guerra: Ernest Fahlberg sui cieli di Motta Visconti e dell’Abbiatense

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Ho ritrovato la storia di un pilota americano il cui caccia- nella seconda guerra mondiale-  fu abbattuto dalla contraerea tedesca e cadde tra le campagne di Motta Visconti.

Ricordo perfettamente l’episodio, anche se non avevo ancora 5 anni. Anch’io accorsi a vedere quell’argenteo uccello volante…prima  o poi ne scriverò più dettagliatamente..per ora bastano queste poche righe.

Curiosità storica al riguardo: le campagne erano di mio nonno Paolo Scotti , e mio zio Pietro Scotti ebbe la fortuna o sfortuna di imbattersi in questo giovane pilota americano, che mostrandogli  una mappa che a detta di mo zio indicava chiaramente anche le rogge dei dintorni continuava a ripetere Abbiategrasso..Abbiategrasso!

Giuseppe Casarini

 

L’odissea di Ernest Fahlberg di Alberto Magnani

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Ernest Fahlberg

Motta Visconti dovette sopportare tre incursioni aeree per quanto fosse protetta da molto verde. Ma più che l’abitato l’aviazione alleata cercava di colpire le batterie antiaeree della Flak installate lungo le sponde del Ticino. (…) La seconda incursione avvenne il 12 gennaio 1945 ed un apparecchio americano fu abbattuto dalla contraerea tedesca collocata nel territorio di Morimondo; il pilota si salvò e riuscì a fuggire.  (Ambrogio Palestra, Storia di Motta Visconti e dell’antico vicus di Campese, Pieve del Cairo, 1976, p. 215) 

                Venerdì 12 gennaio 1945 era una fredda giornata del quinto inverno di guerra. Il cielo era grigio e un’umida nebbiolina avvolgeva la campagna tra Besate e Motta Visconti. Improvvisamente – intorno alle due e mezza del pomeriggio – forti detonazioni ruppero il silenzio. Apparve un aereo color argento, che scese fumando, picchiò con la pancia in un campo, si trascinò per qualche metro sollevando una nube di sassi e terriccio. Trascorsero alcuni istanti. Il pilota sgusciò fuori dalla cabina, illeso, e si allontanò. La radio continuava a gracchiare. Altri aerei sorvolavano il Ticino. Poi tutto tornò come prima, silenzioso.
Quell’aereo era un cacciabombardiere P-47 dell’aviazione degli Stati Uniti. Il pilota era un giovane del Wisconsin, il tenente Ernest D. Fahlberg. Circa un’ora prima, era decollato da Pisa insieme ad altri sette apparecchi del 350° Fighter Group, con l’ordine di bombardare la linea ferroviaria del Brennero.
La formazione superò gli Appennini e trovò la Pianura Padana sommersa da una densa foschia. Il comandante, il capitano James Daily, si rese conto che non sarebbe stato possibile distinguere il bersaglio, così ordinò di cambiare rotta. Gli aerei deviarono verso Milano, sganciarono le bombe sulla ferrovia tra Greco e Sesto San Giovanni e infine, sgravati dal peso degli ordigni, proseguirono alla ricerca di qualche obiettivo da mitragliare. All’altezza di Gallarate, calarono in picchiata sparpagliandosi a coppie di due. Fahlberg, con il sottotenente Alva Henehan, puntò verso Vizzola Ticino.
I due cacciabombardieri vennero accolti da un intenso fuoco di contraerea. Fahlberg ordinò a Henehan di sganciarsi. In quel momento, il suo aereo fu colpito da una scheggia.
Fahlberg mantenne il controllo, ma capì subito che non sarebbe rimasto a lungo in quota. Chiamò per radio il capitano Daily, comunicandogli la propria posizione; poi lo richiamò, per informarlo che l’aereo perdeva olio e poteva incendiarsi. Daily e due altri piloti, che avevano captato la trasmissione, cercarono di individuare il compagno, ma non c’era abbastanza visibilità.
Fahlberg planò verso sud, sorvolando il corso del Ticino. Le batterie di cannoni appostate alla Cascina Brugginetta, tra Ozzero e Morimondo, lo scorsero all’orizzonte e spararono alcuni colpi: non lo centrarono, ma, vedendolo cadere, credettero di averlo abbattuto loro.
Fahlberg avvistò un terreno adatto a un atterraggio di fortuna ed eseguì la difficile e pericolosa manovra. Lanciò un messaggio via radio per avvisare di essere a terra incolume, poi saltò fuori dall’aereo.
Il capitano Daily captò la segnalazione e tentò insistentemente di richiamare Fahlberg, ma questi era già uscito. Allora, assieme a Henehan, effettuò diversi passaggi a bassa quota, ma la bruma gli impedì di scorgere l’aereo. Infine, i due aerei si alzarono e intrapresero la via del ritorno.
Ernest D. Fahlberg aveva ventitrè anni e veniva dalla città di Madison, nel Wisconsin. Aveva terminato le scuole superiori nel 1939 e si era iscritto all’Università, frequentandola per due anni. Nel 1942, richiamato alle armi, aveva chiesto di entrare in aviazione: superate le prove di idoneità, dopo un lungo addestramento aveva ottenuto, il 1° ottobre 1943, il brevetto di pilota da caccia e il grado di sottotenente. Il mese successivo si era sposato con Lucille Mc Call, per poi riprendere servizio e completare la preparazione.
Tra la primavera e l’estate del 1944 aveva combattuto nei cieli del Nordafrica, dell’Italia e della Francia. In agosto, durante lo sbarco degli Alleati in Provenza, il suo aereo era stato abbattuto, ma Fahlberg si era salvato gettandosi con il paracadute. Promosso tenente e decorato, il 12 gennaio 1945 stava compiendo la sua centoventesima missione.
Di ritorno alla base, il capitano Daily fece rapporto assieme ad Henehan e ad un altro pilota, Addison Bachman. Tutti e tre confermarono che Fahlberg era stato costretto a compiere un atterraggio di fortuna; Daily e Bachman, inoltre, avevano udito il messaggio con cui Fahlberg segnalava di averlo portato a termine con successo. Altro non sapevano.
Qualche settimana dopo, la scuola frequentata da Fahlberg pubblicò un almanacco in cui erano elencati i nomi degli ex alunni impegnati sui vari fronti di guerra. Veniva riportato anche il suo nome, precisando che era stato abbattuto e che si era salvato, ma non si avevano ulteriori notizie sulla sua sorte. I familiari – i genitori, tre sorelle e due fratelli, anch’essi sotto le armi – nonchè la giovane moglie erano, ovviamente, in ansia.
Fahlberg, quel 12 gennaio, aveva iniziato una difficile odissea. Circa ciò che gli avvenne subito dopo aver toccato terra in riva al Ticino, disponiamo del racconto fatto dallo stesso Fahlberg a un altro pilota, Wayne Wheeler, che lo ha riportato nelle proprie memorie di guerra. Ascoltiamolo dunque anche noi.

Dopo l’atterraggio di fortuna, mi diressi correndo verso un villaggio che doveva trovarsi a 500 iarde dal punto di impatto al suolo del mio aereo. Udii chiaramente il rumore di automezzi in avvicinamento e, convinto fossero veicoli tedeschi, mi diressi verso un cascinale, notai un mucchio di letame in una concimaia, scavai una buca, mi ricoprii e vi rimasi nascosto. Arrivarono i soldati e si misero a cercarmi, prima attorno all’aereo, poi proprio nella cascina: udivo le grida terrorizzate dei contadini. Un rumore di passi si avvicinò al mio nascondiglio, tanto che pensai di essere stato individuato, ma poi i passi si allontanarono e, dopo un po’ di tempo, i camion se ne andarono. Uscii a dare un’occhiata in giro, ma faceva dannatamente freddo e allora, desiderando solo caldo e sicurezza, tornai nel mio rifugio. Ci rimasi tutta la notte e il giorno successivo. A sera uscii, incamminandomi verso sud-est, verso la linea delle colline che mi apparve in lontananza.


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          Non stupisce la rapidità con cui i soldati tedeschi sopraggiunsero: le rive del Ticino brulicavano dei loro reparti, dai genieri intenti a costruire opere difensive lungo il fiume ai serventi delle batterie contraeree. A Motta Visconti, il villaggio verso cui il pilota si mise a correre, era di stanza una squadra di ricognizione e un comando mezzi speciali.
Una mezz’ora dopo l’impatto di Fahlberg, alcuni aerei calarono su Binasco. Una pioggia di bombe finì sulle case. Forse il bersaglio era il Castello, utilizzato come caserma, ma a fare le spese del bombardamento furono gli abitanti del posto: si contarono circa venticinque morti e un numero imprecisato di feriti. Due guardie di finanza, Niccolò Me e Pasquino Forlani, “sfidando gravi pericoli di macerie cadenti e l’asfissia dovuta al polverone” – come si legge nel rapporto inviato a Milano, si avventurarono in un edificio dal quale provenivano invocazioni di aiuto e portarono in salvo quattro persone. Cinquanta famiglie si ritrovarono senza tetto.
In linea d’aria, Motta Visconti dista una decina di chilometri da Binasco. In aereo, una distanza che si percorre in un soffio. Può darsi che il bombardamento abbia indotto il comando tedesco a richiamare in tutta fretta la pattuglia impegnata nella ricerca del pilota, per non offrire un facile bersaglio agli incursori. La sventura di Binasco potè forse giovare alla salvezza di Fahlberg.
I tedeschi tornarono successivamente a rimuovere l’aereo. Ormai non si aspettavano più di trovare il pilota nelle vicinanze. Il P-47 di Fahlberg non si era schiantato, anzi, non è da escludere che potesse essere riparato. Chissà che i meccanici tedeschi non lo abbiano fatto. La storia di quel cacciabombardiere, finito in mano al nemico, potrebbe aver avuto un seguito. Al momento, però, non disponiamo di informazioni per ricostruirla.
Viceversa, possiamo continuare a seguire le vicende di Fahlberg. Il giovane, dunque, dopo aver trascorso la notte, e poi l’intera giornata di sabato 13 gennaio, rintanato nel letamaio, a sera iniziò a camminare attraverso i campi. Con sé aveva il survival kit cioè la sacca contenente una scorta di viveri, una carta topografica, bussola e denaro italiano. Fahlberg prese con decisione la direzione sud-est, lasciandosi alle spalle la Svizzera e puntando verso gli Appennini: evidentemente sapeva della presenza di missioni britanniche e americane, che operavano nel settore appenninico in collegamento con i partigiani italiani.
Fahlberg scese lungo il corso del Ticino, camminando di notte e rimanendo lontano dalle strade. Aggirò la città di Pavia, poi, da qualche parte, attraversò il Po. Nel suo racconto non spiega come ciò avvenne. Pagò qualche barcaiolo con il denaro italiano? Si impadronì di una barca e riuscì, con le sue sole forze, a remare da una sponda all’altra?
Di fatto, lunedì 15 gennaio si trovava in Emilia, nel territorio di Piacenza, risalendo faticosamente il corso del torrente Nure. Presumibilmente, indossava ancora la tenuta di volo, che, dopo la permanenza nel letamaio e in altri simili rifugi, era coperta di sporcizia. Le sue scorte di cibo erano terminate. Avevo freddo, fame, sete, ero ridotto in uno stato pietoso, sporco e trasandato. La figura di quell’uomo, sudicio e con la barba lunga, in mezzo a campi deserti, su cui era caduta la neve, doveva apparire sinistra.
Fahlberg giunse a un paese di cui trovò indicato il nome, Ponte d’Olio, guadò il Nure e s’inerpicò per un sentiero sino al villaggio di Caminata. Ormai non ce la faceva più. Considerando le deviazioni, per evitare strade frequentate o centri abitati, doveva aver percorso quasi un centinaio di chilometri.
Decise di arrendersi alla prima pattuglia tedesca. In lontananza, distinse due uomini armati che lo avevano individuato e si stavano avvicinando. Fahlberg alzò le mani e rimase fermo ad attenderli.
I due uomini erano partigiani. I partigiani scortarono il pilota americano sino a Morfasso, un paese adagiato in mezzo a distese di neve, su cui incombevano le cime degli Appennini. La zona era controllata dalla Resistenza. In quel luogo, che l’inverno faceva apparire ancor più isolato dal mondo, vi erano persone che parlavano inglese.
La gente del posto, infatti, tradizionalmente emigrava in cerca di lavoro in Inghilterra, trovandolo, spesso, nei ristoranti londinesi. Uno dei partigiani, Stefano Bellini, era stato costretto dalla guerra a tornare in patria e fungeva abitualmente da interprete. Fahlberg potè essere interrogato e identificato. Venne rifocillato, rimesso in sesto e, successivamente, condotto a Bardi, ove, nell’antico castello, si erano insediati i membri di una missione americana.      

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           In attesa che si creassero condizioni favorevoli a tentare l’attraversamento del fronte, Fahlberg venne ospitato in una baita, nel villaggio di Pieve. Qui, con grande emozione, ritrovò un suo compagno, il sottotenente Shuford Alexander, ventunenne. Lo aveva visto per l’ultima volta quasi quattro mesi prima.
Il 1° ottobre 1944, Fahlberg e Alexander facevano parte, con altri sei aerei P-47, della scorta a un gruppo di bombardieri B-25, la cui missione era colpire un deposito di munizioni presso Piacenza. I P-47 scesero in picchiata a mitragliare le postazioni della contraerea e, nel riprendere quota, Fahlberg udì risuonare nelle cuffie collegate alla radio la voce di Alexander, che diceva di essere stato colpito. Dal suo aereo spuntavano lingue di fuoco e alle sue spalle si allungava una scia nera di fumo.
Il comandante della missione gli ordinò di lanciarsi, ma la quota, ormai, era troppo bassa. Allora gli disse di tentare un atterraggio di fortuna. Alexander sganciò il serbatoio supplementare, poi prese terra in un campo, sbandando violentemente e tranciando alcune piante con l’ala destra.
Fahlberg si abbassò e vide chiaramente che Alexander era sgusciato fuori dall’aereo. L’ultima immagine che aveva conservato dell’amico era quella di lui, che si sbracciava per far capire ai compagni di essere incolume. Da allora, di Shuford Alexander non si era più saputo nulla.
Alexander era atterrato nei pressi di Castell’Arquato. Si era rifugiato in una cascina, dove i contadini lo avevano soccorso e avevano scambiato abiti borghesi con la sua uniforme. Un ragazzo, in cambio del suo orologio, lo aveva accompagnato in bicicletta sino a una postazione di partigiani. Con l’aiuto della rete organizzata dal maggiore Gordon Lett, Alexander aveva valicato gli Appennini e tentato di attraversare la linea del fronte in Toscana, presso Massa. Il gruppo di cui faceva parte, però, era stato attaccato dai tedeschi: catturato, Alexander era stato portato a Parma, da dove, però, era riuscito a fuggire, riguadagnando le montagne. Una famiglia di contadini, i Martani, lo avevano a lungo ospitato nel paesino di Tosca. Dopo l’arrivo della missione americana, era stato spostato nella baita, in attesa del momento propizio per ritentare la sorte.
Nella stessa baita, giunsero altri due piloti americani. Il primo, Clarence Thomas, arrivò quasi contemporaneamente a Fahlberg. Era precipitato il 3 gennaio, dopo un attacco al ponte ferroviario di Calcinato: sulla via del ritorno, il motore dell’aereo lo aveva abbandonato. Fortuna volle che Thomas cadesse nelle vicinanze di Ponte d’Olio: i partigiani lo avevano recuperato quasi subito. Il 6 gennaio, però, nella zona si era scatenato un violento rastrellamento tedesco. Il pilota aveva dovuto seguire i partigiani sulle vette, in mezzo a bufere di neve, ed era stato costretto a pigiarsi con una ventina di loro nella cripta di una chiesa, rimanendovi, per ore e ore, in attesa che i tedeschi si allontanassero. In seguito i partigiani avevano ripreso il controllo della zona e Thomas, dopo aver contattato la missione militare inglese, era stato inviato nella baita di Pieve.
Intorno al 25 gennaio, infine, comparve Wayne Wheeler. Un membro di una missione americana e un partigiano lo avevano trovato nella Val Taro: reduce da una missione in Veneto, Wheeler era stato colpito mentre scendeva a mitragliare una colonna di autocarri tedeschi ed era stato costretto a un atterraggio di fortuna presso un filare di gelsi, nel Bresciano. Da lì, aveva iniziato un movimentato e avventuroso viaggio verso gli Appennini, conclusosi con l’approdo nella baita.
I quattro piloti trascorsero diversi giorni nell’edificio, utilizzato anche dai partigiani e dalla missione militare inglese. Dal locale ove alloggiavano si accedeva direttamente alla stalla, dove alcune mucche assicuravano il rifornimento di latte fresco. A una ventina di minuti di cammino viveva una famiglia di origine inglese, i Sangley, che disponeva di una radio con cui ci si poteva tenere al corrente dell’andamento della guerra.
Fu appunto durante una spedizione verso casa Sangley che i piloti udirono improvvisamente gridare: i tedeschi! I tedeschi! Un reparto di soldati stava avvicinandosi, per cui i quattro girarono i tacchi, tornarono a Pieve di gran carriera e, di lì, si inerpicarono su per il monte Barigazzo, la cui vetta era avvolta da nubi minacciose. Dopo due soste, ridiscesero dal versante opposto e si portarono a Tosca, dove vivevano i Martani, gli amici di Alexander. Questi offrirono di nuovo ospitalità a lui e a Fahlberg, mentre Thomas e Wheleer trovarono posto in un’altra casa.
A pericolo scampato, i piloti rientrarono alla baita di Pieve e, dopo aver ascoltato la radio a casa Sangley, decisero di affrontare il viaggio verso la salvezza. Si congedarono dalla missione inglese, che li affidò a un proprio militare. Questi li guidò alla base del maggiore Gordon Lett, a Rossano. Per giungervi, salirono lungo le pendici del monte S. Donna, quindi calarono oltre il crinale sino a Porcigatone e, da lì, alla valle del Taro. Guadarono il fiume a Bertorella, per poi ricominciare a camminare in salita, sino ad arrivare a Rossano.
Il maggiore Lett era stato catturato in Nordafrica dalle truppe italiane. Dopo l’8 settembre 1943 era fuggito dal campo di prigionia ed era entrato in contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale di Genova. Aveva ricevuto l’incarico di raccogliere altri ex prigionieri, con i quali costituì un Battaglione Internazionale di appoggio alla Resistenza. Nella sua formazione erano poi confluiti anche disertori dell’esercito tedesco e persino marinai, sbarcati dalle proprie navi nei porti della Liguria. C’era veramente di tutto: sudafricani, neozelandesi, slavi, russi, persino un somalo e un peruviano!
Successivamente, Lett aveva organizzato una rete per infiltrarsi attraverso le linee tedesche e raggiungere le forze americane, avanzate, nell’autunno del 1944, sin verso i confini orientali della Liguria. L’impresa era riuscita grazie alla collaborazione con i partigiani della Brigata Val di Vara, del raggruppamento di Giustizia e Libertà, comandata da Daniele Bucchioni. I partigiani avevano recuperato, sul cadavere di un ufficiale tedesco, una carta topografica con indicate le posizioni germaniche nella zona. Era stato così possibile tracciare un sentiero che, evitandole, giungesse sino in Versilia. Lo utilizzavano aviatori caduti in territorio italiano, antifascisti in pericolo, ebrei, ma anche agenti delle missioni di collegamento con la Resistenza e partigiani.
Lett non aveva perso l’aplomb da ufficiale di Sua Maestà, compresi i baffetti e una certa aria da snob. Comunque accolse i quattro americani e mise a loro disposizione una guida per intraprendere l’attraversata. In un primo tempo, il gruppetto fu condotto lungo i ripidi sentieri da un ragazzino di dodici anni: salivano e scendevano tra valli e crinali, finchè, nell’affrontare un passaggio particolarmente impervio, Fahlberg scivolò, cadde e si fece male a una gamba.
Fortunatamente non aveva riportato fratture. In ogni caso, il gruppo decise di fermarsi nel paese di Madrignano, per dar tempo al compagno di riprendersi. Il paese era occupato dai partigiani, che ospitarono gli americani nell’antico Castello Malaspina, la cui mole troneggiava fra le case. Dall’alto delle mura, i piloti assistettero alla fucilazione di una spia, e al suo funerale.
L’indomani Fahlberg se la sentiva di camminare e il viaggio venne ripreso. In lontananza si cominciò a distinguere il mare. Il gruppo, cui si erano uniti alcuni soldati inglesi, proseguì attraverso le Alpi Apuane, scese in Val di Magra, aggirò una posizione tedesca e arrivò a Vinca, dove la guida fu assunta da un anziano del posto, un certo Grassi.
Con Grassi alla testa, gli uomini calarono verso la costa, sino a Forno, tra Carrara e Massa, ove sostarono per il resto della giornata e parte della notte. Prima dell’alba ripartirono, si inoltrarono tra oliveti e frutteti e si inerpicarono sulle pendici del monte Altissimo. Nel pomeriggio si fermarono in un avvallamento. Si unirono a Grassi tre montanari, che, al calar delle tenebre, li disposero in fila indiana: si avventurarono così lungo un tratto roccioso, avanzando con cautela, nel buio. Si imbatterono nei cadaveri di alcuni soldati. Una pattuglia di partigiani li indirizzò verso una cascina.
Il gruppo raggiunse la cascina prima dell’alba e la trovò presidiata da un reparto di soldati di colore, americani. Si trattava di un avamposto: la marcia non era finita. Rimaneva da attraversare una zona battuta dalle artiglierie tedesche: i cannoni rombavano in lontananza, ogni tanto un fischio segnalava l’arrivo di un proiettile, e allora tutti correvano in cerca di un riparo. Strisciarono a ridosso di una collina.
Finalmente i colpi si diradarono. Apparvero veicoli, uniformi, la bandiera stelle e strisce. Ce l’avevano fatta. Era il 15 febbraio 1945: Fahlberg era precipitato a Motta Visconti poco più di un mese prima.
Ernest Fahlberg fu condotto in jeep a Pietrasanta, poi a Viareggio. Da lì alla sua base, a Pisa, il percorso era breve. Appena gli fu possibile, si mise in contatto con i suoi familiari.
Al termine della guerra, Fahlberg decise di restare in aviazione. Per circa un anno, fu assegnato alle truppe di occupazione in Germania, dove fu raggiunto dalla moglie Lucille, che gli diede un figlio. Nel 1946 rientrò negli Stati Uniti. Partecipò come pilota anche alla Guerra di Corea e si congedò nel 1963.
(Tratto da “L’ultimo volo. Storie di piloti ed aerei”, edito da La Memoria del Mondo, Magenta 2014)

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