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Una ragazza. Di Emanuele Torreggiani

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“Manuele, Manuele”, incrina le vocali al dolore la voce sottile “prova a venire qui nani, vieni qui che tremo ancora tutta, vieni qui per piacere, vieni qui”. Così sgambo dal mio giardino ed entro nel suo. “Stavo lì a curare che ti vedevo. Sono qui da per me, nani. A chi glielo dico”. Il nani sono io me prossimo ai sessanta. E questa donna abbarbicatami addosso e scossa da singhiozzi oltrepassa di getto gli ottanta. Non pesa più niente. La sua casa profuma di candeggina e biscotti, infatti ce n’è un pacco sparpagliato e calpestato sul pavimento in palladiana traslucido di cera. Arrovesciate le gambe cromate di una seggiola in formica sotto l’esiguo tavolo della cucina dove la zuccheriera in peltro è stata svuotata.

 

“Cosa ti hanno rubato?”, le chiedo mentre la tengo stretta come una figlia. Piange. “Ti sporco tutta la camicia, dopo te la lavo e te la stiro io, non ci pensare, promettimelo”. “Va bene”. Va bene le ripeto mentre piano piano l’accomodo su una seggiola della cucina. Va bene. Prenda un bicchiere d’acqua fresca. Lei scuote il capo. Faccio scorrere dal rubinetto e le riempio a metà un bicchiere dal lavabo. “Beva un sorso per cortesia, ha le labbra bianche secche”. “Grazie che sei venuto qui”. Mi prende la mano e me la carezza. “Grazie nani. Come stanno i tuoi figli”. Annuisco. “E te, te come stai?”. “Va bene, non si preoccupi. Cosa le hanno rubato”. Tutto quanto mi dice. “La fede del mio povero uomo. Quella della mia mamma, povera mamma, l’è morta che avevo sedici anni. Pensa a quanto tempo è là sotto. Non ci sarà là più niente. Quattro ossa. E l’era la mia mamma, povera donna che vita. che vita tutti. La sua fede l’era così fina che quasi a metterla su si stortava tutta. Non aveva niente Manuele. Niente. E la catenina d’oro della mia comunione. Un filo da guglia, me l’aveva presa il mio povero papà che è rimasto in Russia. Avevo nove anni. E venti euro che avevo comodato qui sul tavolo perché domani devo pagare il ticher per gli esami che ho fatto”. Mentre parla ho aperto un armadietto e con la scopa le spazzo la cucina. “No, Manuele, cosa fai, non è un mestiere da uomo. Madonna mi metti in vergogna. Manuele te sei un professore, lascia stare”. Raccolgo il briciolame e lo butto sull’erba del suo esiguo giardinetto “così mangiano i passerotti”. “Non ci sono più neanche loro, non c’è più il passero del villaggio”, mi risponde. Le riempio un altro mezzo bicchiere di acqua fresca e con la carta di credito raggrumo lo zucchero sparso dentro il peltro. “Sei venuto qui a lavorare”. Scuoto il capo. Lei si alza e prende un posacenere. Il tremito l’è passato.

“Fuma se vuoi. Adesso ti faccio un caffè”. Passa uno straccio umido sul piano del tavolo.

Prestando attenzione arriva fin lì in casa sua dalla mia Karajan che dirige i Berliner. Il canone di Pachelbel. “Te la senti sente la musica, anche di notte. Mi fa compagnia. Ma te devi dormire, Manuele ci hai là due bambini”. Guardo questa donna che mi sta facendo un caffè e me lo serve nella tazzina bella, una porcellana di Boemia opale con un filo di verde dilavato da mezzo secolo. “Era in casa?”. Annuisce. “Ero andata giù dabbasso a prendere il lucido che domani devo uscire e volevo pulire bene le scarpe che già sono vecchia e almeno fare bella figura”. Bevo il caffè bello carico. “Ho sentito un trambusto e ho gridato dallo spavento. Era tutto aperto che stavo facendo prendere aria ai locali. Non so come ho fatto e sono salita. Il cuore mi andava che tremavo tutta. L’ho visto che saltava la cinta. Un ragazzo, uno stroligo. Te lo giuro che mi ha fatto una pena. Avrà avuto sedici anni l’età del mio Marco che vivono in Germania che suo padre che è ingegnere c’aveva paura di perdere il lavoro qui in azienda e sono andati via che lui conosceva un direttore tedesco. Stanno bene là. Prende in un mese otto mesi di pensione mia. Quarant’anni in fabbrica. Ottocento euro, la mia e quella del mio uomo che mi danno la metà per la tassazione. Quarant’anni io e quarant’anni lui. Guarda cosa c’è qui. Che paese. Che pena che ho provato per quel ragazzo lì in giro a rubare nelle case. Più il rischio che il guadagno. E la sua gente non gli dice niente?”. Apparecchia una tazzina e lo prende anche lei il caffè: “Tanto se mi va su la pressione prendo mezza pillola. È lo stesso. È lo stesso, quando mi portano là, è già tutto accomodato, i soldi sono in banca per il mio funerale e ho finito di tribolare. Che vita Manuele. Che vita”. Il caffè è buono. Accendo un’altra sigaretta. Lei svuota subito il posacenere nel secchio sotto il lavello. “Ho aspettato che tornavi a casa. Sei uscito che erano le otto e hai spento il chiaro stanotte quasi alle cinque. Mi raccomando”. La guardo questa vecchia ragazza. Gli si vede il teschio sotto la pelle candida, la filigrana delle vene. Stanca. Stanca. Il volto di un popolo dimenticato. Abbandonato.

Emanuele Torreggiani

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