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Un prete, di Emanuele Torreggiani

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L’autunno divora il verde nel complementare cremisi, carminio, magenta e degrada nel giallo che alle prime guazze notturne decade in pallida creta opaca sfarinando poi, già deposta nell’inverno, in ossido ferroso e sarà ancora terra. E così questo ciclico equilibrio sarebbe dettato dal caso. Don Albino, il cui nome illustrava volto e chiome, salvo gli occhi di un blu cobalto.

S’era alzato e fece un gesto per carezzare tutt’intorno la canonica dove alzava un muro a secco di pietra tra i cui massi velati da campanule rampicanti spiccavano intagli di gneiss tra le cui venature l’illusione dell’argento vivo. Poi sedette, così leggero che la seggiola non s’accorse, si tolse gli occhiali una cui stanghetta di metallo era stata rammendata con del fil di ferro che gli arrossava l’attacco del padiglione. Dio è grande. Ed è l’unica misura della grandezza. Vedi, anche se non esistesse, così come intende la tradizione, l’uomo che ha una simile intuizione della grandezza non è destinato a morire. Non è altra cosa Dio dall’uomo. Per questa ragione si è fatto Cristo. Uno di noi. Noi. I polsini ed il collo della sua camicia dilavata sino alla trama erano stati rivoltati e ricuciti alla buona. Rinfresca all’ombra, presto non si potrà più passare il pomeriggio sotto il portico, poi io sono ormai prossimo agli ottanta e soffro, come tutti i vecchi, il freddo che anticipa il sepolcro. Don Albino era rientrato, uscì indossando un gilet a manica lunga di lana nera infeltrita, i gomiti grigiastri, la lunga zip era rotta e se lo andava chiudendo al petto con tre spille da balia.

Lungo tutta un’ala del portico erano impilati ciocchi di legna per la stufa. Schegge e truciolame e segatura e aghi e pigne erano accatastate in due mastelli di ferro che avrebbe usato per l’innesco. Dolce aleggiava il profumo della resina. È stata una bella sorpresa venirmi a trovare sin quassù. Te ne sono grato. Anche per la crostata di pasticceria che ti sei disturbato. Alle cinque meno un quarto arrivano i tre bambini che ancora abitano qui. Escono da scuola e il pulmino li riporta a casa. Ci spende anche tre quarti d’ora. Lo paga la comunità montana, altrimenti si sarebbero dovuto trasferire a valle. Stanno da me sin quando non rientrano i loro genitori che lavorano giù in pianura. Poi mi aiuti a tagliare la crostata. Ho ancora qualche bibita. Sono due maschietti ed una femminuccia. Marco, Maria e Abramo. Vedi, sono circondato, sono le mie sentinelle. Un patriarca, un evangelista e la madre. Non posso avere paura. Stanno qui da me. Prima merenda, che per me è la cena, poi i compiti e poi giochiamo. Gli ho insegnato a potare, a cercare gli insetti, ne imparano i nomi. Quando è freddo o brutto a giocare alle carte. Preferiscono ruba mazzetto, il subbuteo in francese così orecchiano un’altra lingua. Abramo è molto contento del francese, il suo nome è Ibrahim, i suoi sono marocchini e lavorano giù nelle ultime tessiture. Che tengono solo per le stoffe di gran lusso. Evidentemente ci vuole anche il lusso. Giudicare il lusso senza coglierne il lavoro è ancora un errore. Pensa che la madre di Abramo tesse a mano cravatte a unico pezzo. Guadagna il doppio di un operaio. Hanno comprato all’ultima frazione del paese e il bosco soprastante. È da questa primavera che Abramo segue suo padre a pulire e ripopolare con noccioli. Tra un paio d’anni inizierà a restituire la fatica. Ce ne vorrà ancora. Ce ne vorrà sempre. La terra è nobile. Riconosce il lavoro e ritorna. Ormai in paese siamo rimasti in venti, contando i bimbi. Io sono qui contro il volere della Curia. Troppo vecchio per tutto mi hanno detto. Dio è più vecchio di me gli risposi. E me ne sono tornato su. Questa canonica e l’annessa cappella non gli appartiene. È degli antichi conti, piccola nobiltà terriera. L’ultimo erede è un notaio, giù al capoluogo. Mi ha risposto di suo pugno che posso rimanere qui sino alla fine. È casa sua. Dico la messa una volta la settimana. Vengono tutti quelli che ce la fanno fisicamente. Anche i genitori di Abramo. Non gli cambia mica niente. Caricò il coetaneo Longines d’oro al polso scheletrico. C’era un vecchio ragazzo che veniva qui coi bimbi, era un falegname, gli stava insegnando, si divertivano moltissimo. I bimbi vogliono vedere le mani fare le cose. La primavera l’ha portato via. Settantacinque. I bimbi hanno chiesto. Gli ho detto che era morto. Mi hanno guardato. A quell’età la morte è solo una parola. Gli ho detto che il respiro si ferma, che il sangue si blocca e che tutto il corpo diventa freddo. Ho aperto il frigorifero. Ho tirato fuori una bistecca avvolta nel cellophane. Questa è la carne morta. Marco ha detto che era una bistecca. Ho detto che la bistecca è carne morta. Tutti e tre l’hanno toccata con le dita. Non l’avevano mai fatto. Quindi non viene più il Mario. No, è morto. Ed è freddo così. Si, circa. E tu l’hai visto. Si. Ed è tutto fermo. Come me. Mi sono sdraiato sul pavimento e ho chiuso gli occhi. È così. E sono rimasto lì un minuto. E dove vanno i pensieri. Mi sono alzato. Mi sono seduto. Li ho guardati tutti e tre. In cielo. Tutti i pensieri vanno in cielo. Li porta su il vento? Si. C’è un vento invisibile che porta i pensieri in cielo. Mi guardavano e non erano per nulla convinti. I bimbi hanno questa forza tremenda, vogliono parole concrete. Mi aspettavano. Ho chiesto se volessero bene alla mamma. Ed hanno gridato un sì che rimbombava i muri. Mi sono chinato sussurrando, il bene alla mamma va in cielo.

 

Non diventa freddo come la carne morta. Come la bistecca. Il bene alla mamma va in cielo. Anche al papà, ha aggiunto Maria. Certo, alla mamma e al papà. La tua mamma e il tuo papà dove sono? Sono in cielo. Io sono molto vecchio. Quindi il tuo bene è in cielo. Mi guardavano. Però il Mario poteva aspettare a morire, dovevamo fare le casette di legno. Non ha deciso Mario di morire. E allora se non voleva morire chi ha deciso? Guardavo questi tre bambini che mi avevano messo con le spalle al muro. E infatti ho indietreggiato sino alla parete e mi sono lasciato scivolare a terra. Ha deciso la vita. Ma tu hai detto che Mario voleva vivere e allora perché la vita non ha obbedito? La vita è come l’acqua e io non sono l’acqua. Io nuoto. Ma non sono l’acqua. Quando si esce dall’acqua si smette di nuotare. È così per tutti. L’acqua ti dice di morire. Via. Basta. Lo fa con tutti. Lo fa anche con noi? Certo. Li ho guardati. Otto anni. Sì, anche voi tre morirete come il Mario. Non gli è piaciuta questa frase, si sono stretti vicini. E quando? Quando sarete molto vecchi. Molto vecchi. Come te, vecchi come te? Si. Allora tu stai per morire. Sì, io sì. E noi dopo dove andiamo? Per adesso che sono ancora vivo venite qui. Poi si vedrà. E cosa fai tutto il giorno quando sei morto? Continuo a vivere con il pensiero. Con le cose che penso. Con le cose che immagino. Erano già tutti e tre molto lontani. Le mie parole non arrivavano più. Quando saprai parlare della morte ad un bambino gli potrai parlare della vita. E si saprà. Non lo sa fare nessuno. Allora li ho chiamati vicino. Ci siamo presi per mano. Gli ho detto che non lo sapevo. Che non lo sapeva nessuno. Nessuno, da nessuna parte del mondo. Mai nessuno. Annuirono. Mi parve che aspettassero queste parole. Ne furono convinti e rasserenati come del mazzo di carte che andarono a pescare per giocare. Nella loro convinzione c’era tutta la misura della grandezza di Dio. Alla fine, di tutte le mie parole è rimasto il bene per mamma e papà, l’acqua, e il non lo so. Alla loro età non lo so è una certezza. Come l’acqua, la mamma, il papà. Mi ha fatto bene dire non lo so. Non lo sa nessuno. E questo non sapere è la certezza. La voce di Don Albino che lasciava tutta la sua pensione di professore di matematica alle suore missionarie che spendevano la vita da qualche parte in Africa, anch’esse senza sapere nulla oltre ciò che facevano ogni giorno. Guardò l’orologio. C’è ancora tempo. Poi arriveranno. Ti mettono con le spalle al muro. È bellissimo. Quando riesco a rispondere non so. Che verità. Che grande verità. Mi sento in pace. Non lo so.

Emanuele Torreggiani

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