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Avresti potuto non saperne nulla. Ma il solo vederla arrivare, andava a piccoli passi faticosi inseguita da una bava di polvere, per te era già tardi. Era già il troppo tardi. Mea culpa, così ti sarai detto. Pertanto non potevi che rimanertene seduto e ascoltare quella vecchia dalla dolente voce al limitare dei suoi giorni. Ti guardò, ma non sei certo che ti vide. Parlò. Con il suo dire lei ancora sapeva come costruire il mondo. I morti, avevi poi detto quando lei se n’era andata e le parole sono tue, non li lasciamo alle spalle ma sempre davanti essi sono. Vanno, e sono avanti.
Non potevi dunque più alzarti da quella panchina del campo santo e allontanarti. Tornartene laggiù. Ti sarebbe parsa una volgare fuga. Riguadagnare la spiaggia, spogliarti e nuotare dentro il gran mare calmo e caldo e azzurro insieme a tutti gli altri, i turisti. Ma tu, non hai mai trapassato i tuoi giorni da villeggiante. Ormai più nessuno di questa nostra specie, noi che siamo uomini, appena sbarca in un qualsivoglia luogo, immediatamente si reca qui. Tra madri e padri e fratelli e figli. Tra i sepolti.
Te le stavi lì. All’ombra del platano sempre verde, alla cui consolazione dell’ombra era giaciuto Giove dopo aver ucciso e sepolto, nel profondo della terra, l’equivalente del cuore umano, il padre Titano. Seppellire i padri è nostro compito, e spirava appena un alito. Aria e pace.
Sei rimasto lì seduto, immobile nella canicola che ti trapassava brividi freddi, nel frastuono delle cicale, contrappunto alla voce della vecchia che talvolta gridava per sovrastare quel dilaniante frinire, altissimo e folle. Un coro urlato in punto di morte.
La sua voce, mentre andava narrando la sua storia, costruiva l’architettura comparabile all’intima profondità delle chiese preromaniche che lei mai aveva mai visto. La costruzione precede l’edificio. La sua voce si modulava a canto. Era il suono aurorale di quell’alba umana che fu divina, e cantava di vita e morte, cos’altro mai può esistere?
Voce che era preludio dei grandi oratori polifonici che poi saranno germogliati proprio dentro quelle chiese che lei, pur non conoscendone in misura d’estensione, testimoniava. Il fango, la pietra e il legno di quelle chiese, saranno gli elementi originari di quel suo cantare che pare giunga a noi da abissali profondità appena esplorate pur tuttavia presenti in ciascuno. Il suo canto, il suo preludio testimoniava l’illusione del vivere confinato in un luogo e in un tempo. Indicava nello spazio l’esistere dell’anima. La vecchia non aveva mai udito il coro richiamarsi dentro le più antiche chiese che si facevano corpo, mentre noi, dimentichi, lo releghiamo al silenzio del nostro sconosciuto passato.
Quel giorno, se tu glielo avessi domandato, e lei, la vecchia madre, avrebbe voluto risponderti, avrebbe potuto dirti il nome di battesimo di tutti gli esseri della terra. E avrebbe saputo dire di ogni uomo con la medesima cura sia che fosse morto oppure ancora vivo. Compreso degli oceani, i mari, i laghi, i fiumi, le sorgenti, anche i nomi della pozze che vivono il tempo di una pioggia, le montagne, le colline… ma tu non gliel’hai chiesto. La madre attingeva ad una sapienza divina, la stessa cui era stato chiamato Omero. Ed era ancora la medesima sapienza di Cristo che non è stata per nulla capita, né, ovviamente, compresa. Ma immediatamente ed in toto rifiutata. Comunque si era già molto avanti nell’era del ferro, il nostro unico metallo prezioso. Lo spartitore dei beni.
Dimorava in una casa di pietra ancora priva di energia elettrica ai margini dell’abitato, una stanza, tre galline, una capra, la legna accatastata, un rettangolo di terra, il fuoco, l’acqua e per l’intorno l’aria.
Lei da sola seminava il frumento. Lo coltivava, lo andava a mietere, macinava i chicchi nel mortaio e si cuoceva il suo pane. Aria in movimento. E lei, lei che sapeva ancora parlare la lingua della sua origine. Dell’abitare.
Per nulla ti saresti potuto muovere, né dovevi. Il suo dire ti obbligava lì. Nudo. Il suo corpo eretto a Cariatide di un tempo sacro e orfano che lei ancora onorava in spregio all’oceanica limatura dell’oblio. Andava recitando alla maniera più remota che si tramandi: quell’impronta che si stampa nella memoria passando di bocca in bocca. Memoria di una memoria di una memoria. La matrice delle pergamene, dei manoscritti, di Gutemberg, dei libri, delle fotocopie. E te lo offriva. Tu, il suo ascoltatore.
Alla panca, più che seduto accasciato, sembravi penitente quando lei levatasi, ampia nel grembiule nero che le fasciava il placato ventre, se n’andò stenta nel sorriso e disparve di là dal muro a secco di pietre calcinate che delimitava il costretto perimetro di vite che s’illusero, come tutte, di vivere per sempre. Se te lo chiedessero giureresti il vero dicendo che lei sapeva i nomi di tutti i defunti. Madri e padri e fratelli e figli. E poteva arretrare nei secoli sino alle madri capostipiti e ancora indietro d’un passo, sino al cuore del Dio generatore.
Neppure un dente rimasto nella gran caverna ch’era stato il suo candido sorridere. Il mento le sfiorava la punta del lungo naso. Lei grottesca, lei regale. Mentre parlava le si scomponeva il volto che un tempo, quando anch’ella conobbe l’amore, era stato bello e ben fatto al pari di quella ragazza dai capelli biondo cenere che ora siede compunta al tavolino dirimpetto nel caffè dove tu scrivi, e appena la scorgi riflessa nello specchio opaco che occupa l’intera parete. E si sovrappone questo volto intravisto a quello della vecchia. Anche lei era stata così. Ascoltandola, già al primo accenno, avevi sentito dal suo narrare, il passo d’una duplice morte e assaporavi il piacere di scrivere quel lutto. Il vivere e il morire di cui si nutre la letteratura. L’hai detto tu stesso a dei tuoi interlocutori occasionali, per altro distratti, io non inseguo mai una storia, cerco sempre la lingua e quando la incontra ecco la vita, la viva lingua che trasfigura l’ultimo respiro, l’unica vita che mi interessa. Ovviamente i tuoi interlocutori ti guardarono senza comprendere, o peggio, totalmente disinteressati, pur ti sorrisero con quel benevolo compiacimento che si riserva ai bimbi ed ai folli.

E.T.

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