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Tra inferno e realtà, un giorno a Hebron e in Palestina. Reportage di Teo Parini

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HEBRON, CISGIORDANIA – Anno 2016, un giorno come altri nel campo profughi di Aida. Aboud Shadi, alla ricerca della serenità che non dovrebbe mai essere negata a un bambino, sta giocando per strada. È mattino e a Betlemme c’è il sole. Un cecchino appostato su una delle tante torrette di guardia che delineano militarmente l’orizzonte urbano prende la mira e spara, non c’è un motivo. Un colpo dritto al cuore, con precisione, del resto è il suo mestiere. Aboud cade a terra esanime, aveva solo tredici anni. Non lanciava pietre, calciava un pallone e poi lo rincorreva, con la voglia di libertà e giustizia che sarebbe maturata solo più avanti. Cruda normalità, a ricordarlo oggi è una stele, frammento di un genocidio in atto così eclatante da passare inosservato. Siamo in Palestina, o meglio, nel poco che ancora ne resta. 

Storie sottaciute come quella di Aboud ci dicono intanto una cosa. La vittoria più significativa conseguita da Israele in una settantina di anni di esistenza non è bellica in senso stretto. È ideologica, oltre che di immagine. Se è vero infatti che dalle guerre di conquista ne ha sempre tratto un beneficio territoriale smisurato, è vero altresì che il successo della politica sciovinista è il risultato dell’indottrinamento su larga scala che si traduce nella legittimazione a prescindere di un operato criminogeno. Una zona franca del concetto entro la quale nulla è mai condannabile, nemmeno l’efferato. All’uopo è facile riscontrare come ogni critica mossa al governo di Netanyahu – anche quando sostenuta dal diritto internazionale – sia metabolizzata da una cospicua maggioranza della società civile quale incontrovertibile espressione di antisemitismo, pertanto deprecabile. Una mistificazione scientifica della realtà imperniata sulla trasposizione di vittime e carnefici volta alla presa dell’opinione pubblica globalizzata, manipolabile e spendibile. Nell’aere, una sorta di liceità diffusa che in quanto tale si muove sotto l’ombrello di un’assoluta impunità. E mentre tra ignoranza e malafede il mondo utilizza alla stregua di sinonimi filosofie distanti come sionismo e ebraismo per difendere con supponenza l’indifendibile, Israele e i suoi alleati di Washington fanno e disfano ciò che gli pare. Disumanizzare un popolo e la sua sovranità, per esempio. Diritto all’autodifesa, dicono loro, anche se non si sa bene da chi. Perché farsi circuire dalla propaganda mainstream sui missili gazawi, tassello fondamentale di una strategia della tensione imperialista vecchia quanto il mondo, offende l’umana intelligenza. I colonizzatori proiettano sullo schermo l’immagine di un popolo (colonizzato) arretrato, incivile, barbaro e sanguinario e lo qualificano senza appello come terrorista. Alla mobilitazione del consenso ci pensa quindi l’informazione mainstream e così, mentre il dito indica la prigione a cielo aperto di Gaza e veicola gli sguardi, Israele si prende il West Bank. E al mondo pare sia la cosa più normale.

Cisgiordania, Territori occupati. La città vecchia di Hebron, per genesi cuore pulsante e anima araba di un commercio chiassoso e vitale, oggi è un luogo spettrale che incute timore. La via principale di accesso si chiama Al-Shuhada e, dove prima spopolavano botteghe, donne indaffarate, profumi di spezie e melograni dal colore rosso acceso, l’attualità racconta di serrande sigillate, al piede di abitazioni che custodiscono storie di lacrime e precipitosi abbandoni. Polvere, silenzio e ronde: un pugno nello stomaco. Per gli accordi di Oslo il quartiere che accoglie anche la Moschea di Abramo appartiene alla cosiddetta “Area A”, quella soggetta all’autorità civile e militare palestinese ma di fatto non è mai stato così, fin dal 1968 anno di insediamento delle prime illegali colonie ebraiche nei Territori. Un sistema impermeabile di check point stabilisce chi entra e chi sta fuori e i soldati, disseminati tra i vicoli di uno spicchio di mondo irreale, supportano le ingerenze vessatorie di una comunità di coloni che sotto l’egida governativa occupa la città, si espande, umilia, esaspera, espelle. Rendere la vita impossibile agli autoctoni rimasti nelle proprie case per agevolarne la dipartita significa usurpazione, subdola forma di logorio e sostituzione etnica. La chiusura ai palestinesi di Al-Shuhada – dove sono liberi di camminare solo militari e, appunto, coloni armati fino ai denti – è l’archetipo emblematico della ferocia sionista 2.0 quale processo di annientamento combinato di psiche, dignità e fisico. Paradossale, ma solo fino a un certo punto, che il pretesto all’occupazione di Hebron fu il massacro nella moschea del 1994, quando un colono israeliano aprì il fuoco all’impazzata durante la preghiera del mattino trucidando ventinove persone. Per più di un mese la città rimase sotto coprifuoco e le abitazioni di una moltitudine di palestinesi furono sequestrate, con questi ultimi costretti a emigrare non si sa dove. Porte sigillate, famiglie divise da muri e sbarre. Fecero dunque una strage e strapparono agli arabi per sfregio metà dei luoghi di culto, Al-Shuhada e qualche centinaio di attività produttive. L’ingerenza perpetrata fu così radicale che la morfologia della città divenne prima irriconoscibile poi desolante come appare ai nostri occhi adesso. E pensare che, in arabo, Hebron significa “amico”. Già, amico.

Bisogna comunque dare atto a Israele, che per anni ha propinato e difeso la qualifica ossimorica di stato ‘ebraico democratico’, come se la democrazia potesse contemplare privilegi connessi all’etnia, di aver definitivamente mostrato il suo vero volto. Perché, da qualche settimana, la Knesset, quindi il parlamento, ha approvato un decreto che sgombra il campo da ogni inganno. Israele, ora, è anche ufficialmente la nazione del popolo ebraico, non dei suoi abitanti ma dei soli ebrei. Il testo discriminatorio, che rimuove tra l’altro il concetto di uguaglianza declassando l’arabo a lingua ‘speciale’, ha un inciso che è una scientifica condanna a morte: gli insediamenti ebraici nei Territori occupati, le colonie, sono promossi nell’interesse nazionale. Lasciapassare coi crismi del diritto unilaterale alla colonizzazione a tappeto che qui, più che altrove, fa rima con limitazione. Alla libertà di movimento di uomini e beni; all’accesso alle risorse naturali come l’acqua che nelle città palestinesi arriva razionata una volta al mese; al diritto al lavoro e allo studio: sfruttamento il primo, quando c’è, osteggiato il secondo; alla possibilità di ricevere cure mediche, con strutture sanitarie differenziate per ebrei, d’avanguardia, e arabi, fatiscenti; alla costruzione di nuove case e infrastrutture, subordinata a permessi che non arrivano mai; al ritorno nei villaggi occupati, negato nonostante una risoluzione dell’ONU (la 194) lo preveda già dal 1948. Una limitazione alle libertà individuali tout court, quindi a vivere, quindi apartheid. Ma guai a dirlo.

Sempre a proposito di occupazione, un esempio calzante è quello di At-tuwani e dei suoi dintorni, agglomerato palestinese di pastori e agricoltori allocato sulle colline a sud di Hebron che, un domani anche prossimo, potrebbe smettere di esserlo. Abbandonata l’auto ai piedi di un’ascesa impercettibile, in una decina di minuti di camminata si raggiunge Sarura, villaggio evacuato nel 1999 dagli israeliani che vive una situazione emblematica e, insieme, una storia di resistenza moderna che merita di essere raccontata. Si trova in mezzo a due colonie israeliane che, come tutte, non sono sorte in un punto a caso. Sono lì nelle vesti di una tenaglia, strategiche, mutuamente si avvicinano rubando terra e ossigeno e stritolano ciò che incontrano. A Sarura la quotidianità è un esercizio improbo, intanto perché gli ebrei impediscono all’acqua, secondo una prassi consolidata nella regione, di giungervi. Tuttavia quel luogo da ormai un paio d’anni è diventato un simbolo luminescente del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Qui, uomini e donne vi costruirono abitazioni e anche una scuola ma l’esercito le aveva abbattute. Poi fu la volta delle tende, cancellate da identica sorte. Infine delle grotte ricavate nel sottosuolo, dunque indistruttibili, e ora gli autoctoni ci abitano a rotazione. Perché esserci, con anima e corpo, significa complicare i piani di Israele. Oltre che esistere. Sono i Giovani del Sumud, letteralmente i giovani della resilienza, di cui Sami è un attivista. Se oggi fatica a camminare è perché un colono, in una delle consuete incursioni intimidatorie, lo ha travolto con un quad spezzandogli una gamba. Ma è ancora lì, alfiere di un movimento che alle pietre preferisce pugnaci forme di lotta non violenta. A spiegarci quali è Sameeha, una delle fondatrici del campo base Sumud Freedom, facilmente localizzabile perché in cima a un’altura sventola la bandiera della Palestina tra gli ulivi sopravvissuti ai raid dei coloni. Non violenza, dice, non è accettazione passiva dello status quo, quella è solo l’anticamera della rassegnazione. E se il fine è sempre quello della liberazione dall’occupazione militare, è la strada da percorrere verso l’obiettivo a essere alternativa alla guerriglia e creativa. La missione pacifica prevede la caparbia ricostruzione degli alloggi dopo ogni demolizione e il ripopolamento dei villaggi evacuati, perché è sempre la forza della ragione il migliore antidoto all’ingiustizia. Dando al contempo visibilità planetaria alle angherie subite per sensibilizzare le coscienze occidentali asservite acriticamente al pensiero unico dominante che Israele ha saputo instillare nella società del capitale. Fotocamere contro fucili, braccia incrociate contro manette, resilienza contro brutalità. Un risultato enorme è già stato conseguito: la comunità internazionale non può più negare di sapere.

Ma il prezzo da pagare è alto e ha un nome preciso. Si chiama ‘detenzione amministrativa’, una forma di reclusione preventiva senza né accusa né reato. Preventiva, appunto, perché, un giorno, chiunque per Israele potrebbe costituire una minaccia. Dura sei mesi e può essere rinnovata per altri sei, enne volte fino all’infinito. Tutti i ragazzi dei villaggi del West Bank la subiscono almeno una volta nella vita e At-tuwani non fa eccezione alla truce regola. L’ultima volta, eravamo presenti, piantavano ulivi con appesi ai rami i volti dei propri defunti e i militari hanno compiuto arresti solo apparentemente casuali. Tutto ciò sotto gli occhi delle telecamere che hanno il pregio di raccontare una verità scevra da contaminazione. L’obiettivo sionista nell’applicazione della ‘detenzione amministrativa’ è allora duplice. Primo: cancellare il senso di appartenenza dei palestinesi alla propria terra, isolandoli fisicamente dalla comunità di appartenenza mediante trasferimento. Secondo: mantenere alto il livello di terrore. Si colpiscono corpo e mente, energia e speranza. A morte.

A Nabi Saleh, dieci chilometri a nord di Ramallah, succede lo stesso. Sono mezzo migliaio di abitanti che di cognome fanno tutti Tamimi, un’enorme famiglia costituitasi in un comitato popolare sul finire della seconda Intifada. Ogni settimana si riuniscono per strada e protestano perché, oltre alla libertà, gli è stata sottratta la sorgente di El Al-Qawa. A beneficiare indebitamente dell’acqua è la colonia di Halamish che sta sulla collina di fronte. È immersa in una vegetazione rigogliosa e le case hanno lussuose piscine mentre Nabi Saleh è costretta a elemosinare, pagando, gocce della sua stessa ricchezza e inaridisce. Ogni Tamimi sotto i trent’anni ha un trascorso più o meno lungo di privazione di libertà. Anche Ahed, ragazzina nemmeno maggiorenne, ha conosciuto il carcere. Dinnanzi all’agonia del cugino in coma a causa di un proiettile israeliano ha colpito con uno schiaffo un soldato col mitra spianato e, in senso lato, la complicità del mondo intero, in quella che è una delle immagini di disperazione mista a esasperazione più  forte dei nostri disastrati tempi. Ahed ha da poco finito di scontare la pena, è tornata al villaggio e sogna un’esistenza normale. È restia nel raccontare la sua storia ma non ha perso la voglia di lottare. Con la minuta Ahed abbiamo incontrato anche Nariman, Manal e Nour, valorose donne della Resistenza. In Palestina si deve molto alle donne, protagoniste fin dalla Nakba, la catastrofe, di una battaglia su due fronti. Contro l’occupazione militare e per l’emancipazione. Contro quel sistema patriarcale, quindi, che le vorrebbe chiuse in casa e rappresenta ancora oggi una contraddizione sociale irrisolta, a testimonianza di quanto ancora ci sia da fare nei Territori indipendentemente dal conflitto. Se Ahed è rientrata al villaggio, Izz Al-Deen Tamimi purtroppo non lo potrà più fare. In un pomeriggio maledetto come tanti, manifestava insieme al resto del villaggio rivendicando il diritto alla terra, quando l’incursione dell’esercito gli fu fatale. Tre colpi veri, uno alla gola, e la sadica privazione dei tempestivi soccorsi. Morirà poco dopo all’ospedale di Ramallah, dissanguato, con il mondo intento a voltarsi dall’altra parte. La scoraggiante certezza è che Izz Al-Deen non sarà l’ultimo.

Un viaggio nella Palestina occupata è un esercizio mentale straziante e l’inferno, qualora esistesse, avrebbe per certo un volto similare. Quello delle città murate; quello delle ruspe, delle macerie, delle urla e dei blindati; quello delle generazioni nate dentro un campo profughi che moriranno senza mai godere della pace; quello dei check point, delle strade vietate, delle gabbie e delle manette; quello dei coloni mercenari con la pistola nella tasca; quello dell’acqua, della luce e dei servizi che non ci sono; quello dell’alienazione, del dolore, della disuguaglianza e del sopruso; quello della soppressione di ogni via d’uscita e dell’attentato alla speranza. La Palestina occupata è una pagina ignobile di prevaricazione di uomini su altri uomini nel nome della presunta superiorità dei primi sugli altri. Esempio indesiderato di quale e quanta cattiveria possa animare un essere umano accecato dall’odio, dal denaro, dal potere. Anche nel secolo XXI.

La cattiva notizia è che i problemi che minano il futuro di dodici milioni di uomini abbandonati al proprio destino non siano legati esclusivamente all’invasione in atto. Troppo spesso, infatti, a un nemico condiviso – Israele – che riesce solo in parte a fare da collante, si sommano contraddizioni interne, politiche e sociali, divisive e destabilizzanti. Che, come accade in questi casi, generando ulteriori disuguaglianze finiscono per acuire le sofferenze di un popolo già abbondantemente provato. Un motivo c’è, piccolo excursus storico. Gli accordi di Oslo, tra l’altro, hanno sancito la fine dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di cui il defunto Yasser Arafat fu il carismatico leader. Al di là degli errori commessi dal movimento e da Fatah, il partito di riferimento, l’OLP conseguì negli anni almeno due vittorie significative. La prima fu quella di incarnare una politica identitaria palestinese, fulgida espressione di un sentimento nazionale condiviso. Unità, dunque. La seconda fu la rottura dell’isolamento, grazie all’apertura di canali diplomatici internazionali oltre che con il resto del mondo arabo. Così la Palestina, nell’accezione comune, non fu più solo un esercito di profughi disperati ma un movimento nazionale dignitoso capace di alzare la voce. Troppo per Israele, che non restò a guardare. Lo stratagemma che l’Occidente definì ‘Processo di pace’ e che portò alla nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese, un governo fantoccio a libro paga statunitense, funzionò alla perfezione. La conseguente crescita esponenziale della popolarità di Hamas, quale opposizione anche politica alla normalizzazione dell’occupazione israeliana foraggiata dall’accordo capestro, inevitabilmente creò i presupposti per una battaglia fratricida con Fatah e alla successiva separazione politica e amministrativa di Gaza dalla Cisgiordania. Fu la grande vittoria dell’imperialismo, capace di insinuare il tarlo della guerra in seno a un popolo che, diviso, perse la sua carica propulsiva. La Palestina occupata, pertanto, finì per avere due governi ostili e nemmeno uno stato, con la lotta di liberazione che cedette il passo alle devastanti faziosità intestine che ancora oggi, a distanza di anni, costituiscono una piaga irrisolta.

Tornando all’attualità, sembra che a breve vedrà la luce il piano di pace ideato dal genero nonché consigliere di Trump, tale Jared Kusher. Trenta miliardi di dollari di investimenti nella regione in cambio delle colonie. Una pioggia di denaro sotto la supervisione di Washington per comprare l’anima di pochi palestinesi benestanti che baratteranno la loro dignità per una manciata di effimere concessioni individualistiche, dunque borghesi, mentre la stragrande maggioranza del popolo subalterno, che ogni giorno vive sulla pelle privazioni e violenze, finirà solamente per veder accrescere le disuguaglianze di un sistema già disumano. La cruda realtà è che nessun piano di pace sarà mai tale se rifiuta di sciogliere la differenza tra oppressori e oppressi,  tra primi e ultimi. Coesistenza tra uomini che hanno il dovere di considerarsi uguali, inoltre, non è una sporca manovra economica, non è una vantaggiosa concessione della parte egemone, non è nemmeno l’elemosina di un pianeta ipocrita. Coesistenza è il riconoscimento dell’uguaglianza e non si compra. Vien da sé che per il popolo della Palestina la marcia del ritorno (alla dignità) durerà ancora a lungo, nella speranza che i figli di settant’anni di occupazione abbiano una sorte migliore dei loro padri.

Questi giovani li abbiamo incontrati, ne abbiamo raccolto le testimonianze, ci siamo commossi per le loro storie provando dolore per il loro dolore. Siamo partiti da qui pensando di infondere conforto finendo, al contrario, per essere confortati a nostra volta da una forza d’animo inesauribile capace di spostare le montagne. Pensavamo, supponenti,  di conoscere tutto di loro e della loro terra martoriata ma a conti fatti non sapevamo nulla. Avranno la loro libertà, un giorno, questione di resilienza. Quanto a noi, osservare e basta è la peggior forma di complicità.

Shukran, ragazzi.

Teo Parini

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