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+++ Townes Van Zandt – “The Late Great Townes Van Zandt” (1972). By Trex Roads +++

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In questi ultimi articoli spesso la Trex Road ha viaggiato nel tempo e oggi lo fa per parlarvi di un uomo che è la quintessenza dell’essere indipendente.
Ci sono artisti nella storia della musica che in vita non raccolsero mai le lodi e i riconoscimenti che avrebbero meritato. Alcuni, nemmeno dopo la loro dipartita, vennero celebrati per il talento e l’importanza che ebbero. Ne esiste però uno che non soffrì per questa situazione, anzi ne fu felice e ora in cielo starà sorridendo, in maniera amara, pensando che, ancora oggi, a 78 anni dalla sua nascita, a 25 anni dalla sua prematura scomparsa e a 28 dalla sua ultima uscita discografica (con lui ancora in vita) , alcuni addetti ai lavori e molti fans lo considerano importante, importantissimo.

Un cantastorie dal talento unico per quello che hanno significato le sue canzoni, i suoi testi così evocativi, malinconici e a loro modo tragicamente premonitori.

Quell’artista risponde al nome di Townes Van Zandt da Fort Worth, Texas. Uno che per abilità lirica e intellettuale possiamo certamente, senza risultare blasfemi, affiancare al grande Hank Williams e a Bob Dylan.

Townes era figlio di petrolieri, della borghesia texana, ma la scarica elettrica che lo fulminò quando alla tv assistette al concerto di Elvis Presley all’Ed Sullivan Show, fu tale che la sua vita cambiò per sempre. Egli divenne una sorta di pecora nera della sua agiata famiglia e dedicò l’esistenza alla musica, una calamita che lo attirava senza scampo. Non erano i soldi, non il successo, ma l’espressione che poteva dare a se stesso cantando le sue canzoni. Pezzi che avevano uno stile che traeva ispirazione dai grandi bluesman texani acustici, come Lightning Hopkins, per il quale aprì alcuni concerti ad inizio carriera, ma anche dai grandi folkmen come Dylan o l’amico fraterno Guy Clark (texano come lui) o rocker dalla fama enorme come i Rolling Stones.

Dove c’era emozione e dove c’era malinconia esistenziale, Townes vi ci si ritrovava e assorbiva il tutto per creare un suo stile unico che fece numerosi proseliti fin dal suo primo disco del 1968 (For The Sake of Song) fino a questo The Late Great Townes Van Zandt del 1972, che viene considerato, quasi da tutti, il suo capolavoro.

Un gioiello composto da 11 meravigliosi affreschi in musica, una musica asciutta, una voce da narratore triste, poche chitarre acustiche, qualche comparsa di elettrica, violini e cori. Tutto qui, ma di una bellezza struggente e scintillante.

Una vita segnata da un male veramente terribile da gestire in pubblico (era un maniaco depressivo), poi medicinali mischiati ad alcol e droga e quella sensazione sbandierata ai quattro venti di una vita che sarebbe stata breve e che la morte lo avrebbe presto raggiunto. Non ne era spaventato, anzi quasi la desiderava e il titolo di questo disco del ’72 sta li a ricordarcelo, come fosse un album postumo di qualcuno appena scomparso.

Non fu così in realtà, Townes resistette alle sue canzoni tristi e cupe di amori finiti e tradimenti, al suo vivere in una casa a Nashville per anni senza gas, elettricità o riscaldamento, al suo amore per le armi e al suo odio per la notorietà. Quando tornò vicino a casa, ad Austin, i gestori e i promoter lo cercavano, teneva concerti in piccoli club dove, se la serata era quella giusta, regalava poesie indimenticabili e storie uniche, mentre, se la sua mente lo abbandonava, si ricordano scene rubate alla fine carriera del suo grande ispiratore Elvis da Memphis, collassi e cadute, come quella che poi a causa di complicazioni dovute alle fratture e alle sue dipendenze, lo portò alla prematura (e a questo punto desiderata) morte il 1° gennaio 1997. Primo gennaio come il grande Hank Williams con cui condivide l’importanza essenziale per la musica country.

 

Un disco che è difficile raccontare, come tutti i suoi a dire il vero, ma va assaporato con calma, con cervello e con l’anima giusta. Non è facile ascoltare le canzoni di Townes Van Zandt, ma le cose belle non sono mai facili.

Chitarra acustica, graffiante e incisiva come quella dell’opener No Lonesome Tune dove la voce di Van Zandt ci parla, lui non canta e non cerca armonie facili, ma ti entra dentro con quella malinconia che divenne il suo marchio di fabbrica. Lo stesso nella successiva Sad Cinderella, dove i cori accrescono questa sensazione che attanaglia l’anima. E quasi a spezzare un po’ questa aria pesante, arriva il country rock venato di blues di German Mustard (A Clapalong), quasi un brano da bluesman del delta, di quelli che i padri fondatori del genere cantavano al crocevia su strade polverose e in mezzo a immensi campi di cotone.

Però quel sentimento non se ne va e torna con prepotenza nella struggente ballata Snow Don’t Fall, che racconta un amore spezzato dalla morte dell’amata, un gioiello che porta alle lacrime, così sincero e senza filtri. Il pezzo è arricchito dagli archi e da un arrangiamento quasi geniale. Un pezzo che dovrebbe essere patrimonio dell’umanità e invece tanti, troppi ignorano.

I suoi colleghi, che ne conoscevano la grandezza, provarono a toglierlo dall’oblio del grande pubblico: Willie Nelson e Merle Haggard portarono in cima alle classifiche uno dei suoi pezzi più belli, la meravigliosa Pancho and Lefty. Una ballata western di tradimenti e amicizia, semplice e perfetta. Questo successo non sfiorò minimamente Townes, anzi, conoscendolo, lo infastidì magari. Lui conviveva con la sua testa così martoriata dalle voci che sentiva, dalle medicine di cure che provarono in ogni modo a guarirlo, ma che non distrussero la sua poesia, il tuo talento.

Ascoltatevi If I Needed You  e ditemi che non è una delle canzoni d’amore più intense che avete mai sentito? Ma ci vollero Don Williams e Emmylou Harris per farla diventare un singolo da classifica, ben 9 anni dopo.

Vi ripeto è un disco difficile, complicato da assimilare (come tutta la sua discografia), ma prendetevi del tempo, assaporatelo, sentite sul palato quel gusto amaro di malinconia, piangete le sue lacrime e sorridete, a denti stretti, nelle canzoni più solari.

Un disco meraviglioso, semplice, asciutto, senza orpelli, senza lustrini, di una sincerità disarmante. Un disco vero, poetico e drammatico, come tutta la vita di quest’uomo, divorato da se stesso, dalla vita che aveva scelto e dai suoi demoni. Il suo amico fraterno, Guy Clark, lo definì il più grande cantautore americano mai esistito. Non sappiamo se sia stato così, ma di certo è stato uno dei più grandi e, senza ombra di dubbio alcuno, il più sottovalutato. Ogni amante della musica di qualità e d’autore, dovrebbe conoscerlo e, se non lo conosce, è arrivato il momento di rimediare con questo che è il disco che farà scintillare davanti ai vostri occhi l’anima tormentata di un artista unico e inarrivabile, the Late Great Townes Van Zandt.

 

 

Buon ascolto,

Claudio Trezzani by Trex Roads  www.trexroads.altervista.org

(nel blog trovate la versione inglese di questo articolo a questo link : https://trexroads.altervista.org/the-late-great-townes-van-zandt-townes-van-zandt-1972-english/

 

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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