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Viviamo in un mondo in cui la tecnologia è quasi sovrapponibile alla magia, miliardi e miliardi di informazioni sono reperibili all’istante, non sembra più esserci la possibilità di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è giusto da ciò che non lo è. La comunicazione è immediata ma il dialogo non esiste, la polarizzazione di idee è ai massimi storici, come denuncia una delle ultime uscite su Netflix “The social dilemma”, e sembra esserci solo un ammasso di pensieri incongruenti, voci che parlano ma non si ascoltano, opinioni vendute per certezze. C’è bisogno, ora più che mai, di riscoprire i grandi valori che Dante voleva tramandare con il suo capolavoro, la Commedia, in particolare nella seconda cantica: l’umiltà, il rispetto, l’ammissione di aver bisogno di aiuto, di essere tutti nella stessa condizione: spaesati e inesperti dinanzi un’emergenza tale.

 

“Voi credete / Forse che siamo esperti d’esto loco / Ma noi siam peregrin come voi siete” ( Purgatorio, II canto, v 61-63) ammette umilmente Virgilio a una delle anime, introducendo due tematiche importantissime: la prima è appunto l’umiltà, il saper riconoscere la propria inesperienza dinanzi la montagna purgatoriale, ove chi si pensava sapiente si scopre ignorante, chi si credeva superiore si scopre al pari degli altri. L’altra tematica è la fratellanza tra esseri umani: non siamo soli nel nostro incedere, non siamo i soli a essere vittima di ingiustizie, non siamo i soli a soffrire. “Nel bel mezzo del cammin di nostra vita” recita il primo verso della prima cantica, subito a sottolineare l’universalità dell’opera, che racconta non la condizione del poeta in particolare, ma quella di tutti. Proprio qui sta il miracolo della poesia dantesca, e dei grandi classici in generale: centrano in pieno le grandi tematiche comuni, in particolare la Commedia “va incontro alla vita concreta di ognuno”, afferma il professor D’Avenia nel suo articolo “Le tasche dell’anima”.

 

Ma da dove viene questa capacità del Sommo Poeta di attingere così in profondità dall’esperienza umana? “Dante Alighieri accede alla poesia più alta, più sublime, attraverso il dolore”, suggerisce lo scrittore e regista Pupi Avati in un’intervista. Il dolore, effettivamente, è una grande palestra di vita, ti prende “a calci e cazzotti”, e ti lascia con solo due opzioni: arrenderti, o reagire. In Dante troviamo l’esempio più eccellente di reazione, il suo rialzarsi dalla selva oscura in cui si ritrovò coincide con la creazione di un’opera formalmente e moralmente perfetta, capace di condensare in terzine di endecasillabi i più grandi valori cui l’umanità può aspirare, il tutto reso mistico da una musicalità dei versi inimitabile. Non si può non provare ammirazione per questo capolavoro assoluto, geniale ma al contempo fruibile per tutti; “divino” (aggettivo attribuito dal Boccaccio) ma al contempo umano, popolare; frutto del dolore ma a sua volta seme dell’amore più alto e sublime che si possa provare: quello di Dio, di cui rimane la dolcezza (“e ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa” – Paradiso, XXXIII canto, v.62,63).

Dante ancora oggi ci insegna che non siamo soli, e proprio per ciò non dovremmo neanche scegliere di esserlo, di affrontare le avversità con le nostre sole capacità: si può sempre trovare qualcuno disposto ad offrire una mano. Dante ci insegna che il dolore può essere convertito in carburante per ricominciare meglio di prima, imparando dagli sbagli, pentendocisi dei peccati commessi, riconoscendo dove avremmo potuto fare meglio, bisogna “affrontare il purgatorio della messa in questione di errori, eccessi ed omissioni.” dice José Tolentino. Dante ci insegna ad apprezzare la bellezza in se stessa – un po’ come Platone – andando oltre stolti preconcetti riguardanti etnia, cultura, tradizioni, ideologie: la studiosa della Columbia University, Teodolinda Bartolini, lo definisce “ribelle”, “progressista”, per aver riservato ad un “infedele”, Averroè, lo stesso trattamento dei grandi autori classici, e averlo posizionato nel limbo. Dante ci insegna ad affrontare le tre fiere, per quanto spaventose che siano, ci insegna a chiedere aiuto, ci insegna a non vergognarci se non ci sentiamo all’altezza del nostro destino, ci insegna che abbiamo bisogno di una guida. I valori della Commedia, ancora 700 anni dopo la sua morte, sono di un’attualità inestimabile, e lo saranno per sempre.

“Nessuno come lui, che tutto perse dall’oggi al domani, ha narrato l’arte di ritrovare l’essenziale.” – Alessandro D’Avenia ha sintetizzato tutto ciò in una semplice frase di una potenza stupefacente.

Dante ha preso carta e penna e ha creato un’opera che è uno specchio, e specchiandocisi ognuno ritrova la sua esperienza, gli insegnamenti appresi nel corso della vita. Per questo per Pupi Avati “ognuno ha il suo Dante”, per D’Avenia “Dante deve stare in tasca, perché è necessario alla vita quotidiana”: ogni tanto fa bene guardarsi allo specchio e riflettere. Riflettere la nostra immagine e sulla nostra immagine: sei soddisfatto di ciò che vedi? In cosa puoi migliorare? Vorresti vivere a colori ma ti senti smarrito? Tra i versi della Divina Commedia puoi trovare una guida umana, che ti accoglie, non ti fa sentire solo nel tuo cammino di salvezza e, anzi, lo illumina.

Federico Nebuloni, 4A Linguistico Quasimodo

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