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‘Sono partito democratico e non torno indietro’, Paolo Razzano racconta i 10 anni del Pd

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Paolo Razzano, dirigente del Pd Metropolitano, ricorda con questo contributo i primi 10 anni dei ‘Dem’

Di mestiere faccio il comunicatore. Artigiano delle parole, il mio lavoro è quello di trovare il modo giusto di trasmettere un messaggio. Articoli e comunicati stampa, ordini del giorno e interviste, mail e discorsi. E gli slogan: parole che nascono come tue, ma poi sai già che verranno stampate su manifesti, finiranno su magliette, gireranno condensati in un hashtag, insomma diventeranno – comunicare, mettere in comune – parole condivise.

Nel mio mestiere di comunicatore mi è capitato di azzeccare qualche slogan. Ma so già che c’è uno slogan talmente bello e intenso, che, per quanto mi possa sforzare, non riuscirò mai a superare.

È una frase che da dieci anni non ha smesso di girarmi in testa.

Sono partito democratico, e non torno indietro.

È una frase che mi ha accompagnato in tutto il mio percorso politico all’interno del PD. Una frase che mi ha sempre trasmesso una carica, un ottimismo, un orgoglio, che non so nemmeno spiegare. Che mi è tornata alla mente nei momenti di gioia e in quelli più critici. Una frase che mi aveva colpito fin dalla prima volta che l’ho sentita: dieci anni fa.

 

Sono partito democratico, e non torno indietro.

 

Campeggiava su un poster all’ingresso del salone che ospitava l’ultimo congresso della Margherita. Aprile 2007, Roma, mentre in contemporanea a Firenze si teneva il congresso DS. Una doppia kermesse in cui gli eredi delle due maggiori famiglie politiche del Novecento si univano per inaugurare il futuro. Su quel poster vicino alla porta si vedeva un papà con in spalla il suo bambino, rivolti verso le montagne e il cielo azzurrissimo, e sulla maglia blu del papà quella frase. Il cammino. La sfida. La gioia di fare un passo dopo l’altro, insieme.

 

Ma che ci facevo in quel salone? Sono partito democratico ma non sono nativo democratico. Conseguenza dell’azzardo di candidarmi a 21 anni, nel 2002, al consiglio comunale della mia città, Magenta, a sostegno dell’energica sindaca ulivista uscente, Giuliana Labria. La prima di tante campagne, che vissi da novellino assoluto – il massimo della politica, prima, era stato fare il rappresentante d’istituto al classico – ma entusiasta, e che mi catapultò in consiglio tra i banchi della minoranza. Fu allora che i miei compagni di opposizione mi misero di fronte alla scelta del gruppo a cui aderire. E quindi al partito. Discorsi per me del tutto nuovi, e anche un po’ astrusi: mi ero candidato per la mia città, spinto dal desiderio di farmi portavoce del mio quartiere oltre la stazione, provenendo dall’esperienza dell’oratorio. E ora mi dicevano: DS o Margherita, da che parte stai? Un po’ per la mia formazione, un po’ per letture che andavo facendo in università, un po’ perché trovavo delle affinità con le le discussioni nella redazione del giornalino della parrocchia, che dirigevo … scelsi la Margherita.

 

Di quei primi anni di impegno – come giovane consigliere di minoranza, e poi sempre più coinvolto nel gruppo provinciale dei giovani della Margherita, di cui a un certo punto mi venne affidato l’incarico di presidente – ho tanti ricordi. Le prime battaglie, i volantinaggi. Ma avevo come la sensazione che mancasse qualcosa: un orizzonte più chiaro, una direzione comune verso cui andare insieme ai compagni di opposizione. Orizzonte che ritrovavo in occasione delle campagne comuni sotto le insegne dell’Ulivo: come le europee 2004, in cui coordinai i banchetti e la mobilitazione a Magenta.

 

E ricordo il momento in cui iniziammo a parlare del progetto del Partito Democratico. Fu come un’accelerazione. Ricordo le discussioni al circolo su come sarebbe stato quel nuovo progetto riformista. Ricordo l’attesa, anche la curiosità: come quando seguii, in diretta sul pc di casa con una connessione ancora traballante, la conferenza stampa di presentazione del logo del nuovo partito. Mi colpì che a elaborarlo non fosse stato un celebre designer ma un giovane neolaureato dello Iuav di Venezia: mi sembrava un messaggio forte, di fiducia ai giovani, e mi piacque molto, così come la scelta di rendere protagonisti i colori della bandiera italiana. Senza dimenticare l’ulivo, le radici.

 

Sono partito democratico, e non torno indietro.

 

Già, perché ripartiti dal congresso di Roma si apriva di fronte a noi la sfida: costruirlo davvero, il PD. A partire dal congresso che avrebbe costituito il circolo del PD Magenta. E in cui scelsi di candidarmi come segretario. Il nostro circolo nacque con una grande spinta di partecipazione – vi confluirono non solo ex DS ed ex Margherita, ma anche molti volti nuovi, per cui la nascita del PD fu l’occasione giusta per avvicinarsi alla politica – e di dialettica. Ricordo il confronto, acceso, con una figura autorevole come Silvia Minardi, allora capogruppo della pattuglia democratica in consiglio comunale (perché sì, anche nel 2007 eravamo usciti sconfitti dalle amministrative, finendo di nuovo in opposizione), oggi capogruppo dell’esperienza civica “Progetto Magenta”. In una domenica pomeriggio di grande partecipazione – votarono oltre 450 persone – venni eletto primo segretario dei democratici magentini. La responsabilità di segretario del PD della mia città, un ruolo che avrei ricoperto fino al 2012, è stata una delle esperienze che mi hanno formato di più in assoluto. Dal punto di vista umano, ancora prima che politico.

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Gli incontri. Il sostegno ai primi passi del PD. Il PD per me significò anche conoscere da vicino la Lombardia a guida formigoniana, lavorando a fianco dell’on. Francesco Prina, allora consigliere regionale. E la campagna per Walter Veltroni, purtroppo sfortunata, che ci sembrò davvero l’occasione di voltare pagina, dopo quella sera in piazza Duomo a Milano, straripante, entusiasta, ottimista. Il sapore amaro della sconfitta e la necessità di ripartire daccapo. Da Magenta, dall’opposizione anche dura al sindaco forzista Luca Del Gobbo, provando però a proporci alla città non solo come quelli “contro”, ma con un progetto condiviso e costruito in mezzo alla gente.

 

Sono partito democratico, e non torno indietro.

 

Di quegli anni vorrei condividere un ricordo. Questo articolo sta diventando lungo, lo so: ma se siete arrivati fino a qui vuol dire che questa storia vi sta a cuore. E il ricordo è proprio la campagna “Abbiamo a cuore Magenta e ci mettiamo la faccia”. Una campagna di comunicazione con cui come circolo scegliemmo di presentarci alla città con una semplice foto di gruppo di tutti noi, insieme: iscritti e consiglieri, giovani e volti storici come Armanda Dall’Ara, prima presidente del consiglio comunale di Magenta, in politica dal 1948, tuttora aderente al PD. Siamo rimasti affezionati a quel manifesto, che è ancora appeso in sezione, forse perché quella foto ritrae anche amici e compagni che non ci sono più: come Franco Beretta, appassionato e instancabile dialogatore, colonna della frazione di Pontevecchio, e Sandro Torani, che da solo, in sella alla sua bicicletta, portava il giornalino del circolo in centinaia di case dei magentini.

 

In quella fase andavo maturando la convinzione che per conquistare la fiducia dei magentini ci volesse un progetto più ampio, dal profilo culturale, il più aperto possibile alla cittadinanza e alla partecipazione. In tutta Italia iniziava a soffiare quel vento arancione che avrebbe portato Giuliano Pisapia e la sua coalizione di centrosinistra al governo di Milano, dopo anni e anni di centrodestra – un’avventura straordinaria, a cui contribuii insieme ai Giovani Democratici (di cui ero presidente regionale fin dai tempi in cui, politiche 2008, giravamo per la Lombardia su di un pullmino un po’ scassato distribuendo i primi volantini dei GD lombardi). Le iniziative insieme a Emanuele Lazzarini, le biciclettate notturne per Milano insieme a un popolo arancione che cresceva sempre di più, il venerdì notte prima del ballottaggio a girare in auto con Pierfrancesco Maran e l’altoparlante, fino all’ultimo. E piazza Duomo, il doppio arcobaleno dopo la pioggia, la festa per quella vittoria che ci colse quasi increduli.

Fu in quel clima che mi convinsi che la riscossa era possibile anche a Magenta. Il primo passo fu fondare, insieme a Marco Invernizzi – storico curatore dei cineforum della Città della Battaglia –, l’associazione “UrbanaMente”, per mettere al centro i temi della città. E chi invitare alla serata d’inaugurazione se non il migliore interprete delle radici culturali del PD, Walter Veltroni? La scusa fu la presentazione del suo libro “Noi”. “Eccoci qui – mi dissi vedendo la sala consiliare strapiena –. Si può fare”. Era l’embrione del percorso che ci avrebbe portati, ancora nel 2011, alla serata “Non ci bastiamo”, in cui come democratici magentini ci presentammo aperti alle forze di tutto il centrosinistra e dei mondi civici per giocare, uniti, la partita delle amministrative 2012. E partimmo insieme.

 

Sono partito democratico, e non torno indietro.

 

Lo dico subito, la campagna del 2011-2012 è stata una delle esperienze più esaltanti che abbia vissuto. Un gruppo compatto e motivato, fatto di giovani e meno giovani, a sostegno di un candidato, Marco Invernizzi, che faceva della visione e dell’ispirazione culturale la sorgente della proposta politica. L’entusiasmo contagioso che ci portò a costituire 5 tavoli permanenti per la costruzione del programma, arrivando a coinvolgere centinaia di cittadini, raccogliendo proposte e idee. Il coraggio e, in certi casi, l’incoscienza di tentare iniziative dal sapore nuovo. Una vera e propria cavalcata, tra banchetti, incontri al mercato e nei quartieri, biciclettate, concerti. Una carica che ci portò a sfiorare il 40% dei voti al primo turno per poi affermarci al ballottaggio. Così, dopo dieci anni, Magenta tornava al centrosinistra.

 

E io venivo chiamato alla seconda grande responsabilità che ha cambiato la mia vita: quella di amministratore. Mi venne affidato l’incarico di vicesindaco, con deleghe a bilancio, sicurezza, personale, sport. Un impegno in cui ho toccato con mano che cosa intendeva il mio vecchio parroco, don Walter, quando ai tempi dell’oratorio ci insegnava sull’esempio del cardinal Martini che politica significa soprattutto mettersi a servizio. Per quegli incroci fortunati della vita che forse non sono un caso il mio lavoro mi aveva portato nel frattempo a fianco di Virginio Brivio, sindaco di Lecco, come capo del suo ufficio stampa: è lì che ho visto come un primo cittadino può essere un grande amministratore, amato dalla gente e vicino ai problemi di tutti i giorni.

È così che ho cercato di interpretare, per quanto possibile, il ruolo che mi era stato affidato. Che mi ha portato ancora più a contatto con i miei concittadini, che mi ha insegnato che cosa vuol dire davvero ascoltare le loro esigenze, difficoltà, speranze. Che mi ha portato, e spesso, a toccare i miei limiti – essere amministratore è stato, tra le altre cose, una specie di cura drastica del mio carattere. Sono stati anni eccezionali, insieme a una squadra, la nostra giunta, di persone innamorate di Magenta, anche se non sempre semplici.

 

Sono partito democratico, e non torno indietro.

Mentre mi dividevo tra Magenta e Lecco si era consumata l’accidentata campagna per le politiche 2013, in cui l’obiettivo per il PD di andare al governo con un chiaro mandato da parte degli italiani era sfumato. Ricordo il periodo che ne seguì – dopo la crisi che si aprì nella segreteria con le drammatiche vicende legate all’elezione del presidente della Repubblica – come concitato e pieno di incognite. Il partito della vocazione maggioritaria sarebbe sopravvissuto a quella “non-vittoria”? Come ritrovare una rotta e, insieme, lo slancio? Come, insomma, cambiare passo?

Era quella la vera posta ingioco ai congressi che si svolsero quell’anno. Anche nell’area di Milano sentivamo come vera e impellente la sfida lanciata a livello nazionale da Matteo Renzi. Già, perché ancora nel 2013 era quasi inimmaginabile che un trentenne potesse ricoprire l’incarico di dirigente del partito con ruoli di alta responsabilità. Ma la partita era troppo decisiva per tirarsi indietro. Con un gruppo di giovani militanti e amministratori, della città e della provincia, attorno alla figura di Pietro Bussolati si consolidò l’idea che il PD potesse essere un luogo aperto e dialogante, che superasse i riti partitici per fare cose concrete, coinvolgendo le persone e allargando alle nuove generazioni.

Fu un congresso provinciale complesso, con un dibattito ricco, stimolato dalla partecipazione di candidati esperti e autorevoli. Girai un po’ tutta la provincia, conoscendo Comuni in cui non ero mai stato – e perdendomi regolarmente in macchina, tra i campi.

Con quel congresso, che elesse Bussolati segretario metropolitano, finii scombussolato anch’io: ora non ero solo molto più ferrato sulla geografia dello Hinterland milanese, ma entravo nella segreteria come responsabile dell’organizzazione. Scombussolato, perché ora la mia ruotava vorticosamente attorno al triangolo Magenta – Milano – Lecco. Quel pomeriggio in cui, lanciato in auto sulla Valassina, realizzai che in realtà la riunione a cui dovevo andare era convocata a Milano, capii che si imponeva una decisione. E la decisione fu di dedicarmi a tempo pieno alla mia città e all’impegno per il PD.

Sono stati quattro anni pienissimi. Potrei dire che mi sono occupato di organizzazione, di comunicazione, di risorse, ma sarebbe riduttivo. Perché questi anni in segreteria sono stati gli anni in cui, più di tutto, ho capito che cos’è il Partito Democratico. Ho scoperto i ricchissimi talenti legati alle nuove competenze che forze fresche e giovani professionisti hanno portato nel partito; ho incontrato le storie delle persone – ex amministratori, militanti, volontari – che da decenni sono punti di riferimento per le proprie comunità, spendendo la propria vita a servizio degli altri e di ideali grandi. Mentre scrivo queste parole mi passano davanti i volti, gli sguardi, le speranze della comunità democratica del Milanese, una famiglia di oltre 10mila persone certamente diverse tra di loro, ma che hanno in comune il sogno di contribuire alla costruzione di un’Italia migliore.

 

Sono partito democratico, e non torno indietro.

 

È con loro che abbiamo combattuto le battaglie di questi anni. Il successo travolgente colto alle europee del 2014, la spinta delle riforme del governo guidato da Matteo Renzi, l’elezione di Beppe Sala a sindaco di Milano, la grande battaglia per il “sì” al referendum costituzionale, mancata a livello nazionale, ma vinta dentro a una città e un’area metropolitana che hanno ritrovato la propria dinamicità, la propria vocazione internazionale, il proprio ruolo di guida economica e non solo del Paese. Sì, sono stati anni in cui sono diventato più milanese. Ma al contempo anche più autenticamente magentino.

Da vicesindaco mi sono impegnato perché i cittadini in Comune trovassero anzitutto ascolto. Per mantenere in ordine il bilancio in anni di dure ristrettezze e tagli, cercando al contempo di diminuire la pressione fiscale per cittadini e imprese. Per la lotta all’evasione fiscale, che ci ha permesso di recuperare risorse preziose. Per una città sicura, sperimentando forme innovative di sicurezza partecipata, come i gruppi di controllo del vicinato. In contatto continuo con i miei concittadini, con le associazioni che sono la ricchezza di questa comunità di 25mila abitanti a Ovest di Milano, sempre più consapevole di quale onore sia amministrare una città così carica di storia. Nel tentativo di ascoltare i suoi problemi e cercare di offrire soluzioni, un pezzo alla volta.

 

Sono stati anni ricchissimi, ma sono anche volati. E così arriviamo a questo 2017. In cui, per l’amministrazione di cui ho fatto parte, è arrivato il momento di ripresentarsi ai cittadini e di consegnare a loro il giudizio sul lavoro svolto. Siamo andati davanti a loro cercando di spiegare, con trasparenza e franchezza, i risultati del nostro impegno, anche i nostri errori, e i nostri progetti per continuare sulla strada tracciata e promuovere lo sviluppo della nostra città. Non è bastato. Nel contesto di un quadro generale molto complicato per tutte le amministrazioni di centrosinistra, i magentini non ci hanno rinnovato la loro fiducia. Un risultato che lascia l’amaro in bocca, inutile negarlo, perché non avremo la possibilità di portare a termine i progetti avviati. Perché a prevalere è stato un centrodestra maestro nell’approfittare delle paure e dei sentimenti di insicurezza dei cittadini. Abile nell’affermarsi con gli slogan, le banalizzazioni al limite della bugia. Questa battuta d’arresto ci ha rimesso davanti a una sfida che davvero non riguarda solo il PD Magenta.

Noi siamo il partito delle risposte complesse a problemi che sono complessi. Non saremmo seri, altrimenti. E non dobbiamo avere paura di questo. Ma come tenere insieme complessità ed esigenze della comunicazione dai ritmi sempre più incalzanti? come spiegare che le soluzioni non arrivano dalle bacchette magiche, ma da sforzi comuni, tentativi e ripartenze, che hanno bisogno di tempo, e fiducia, e impegno di tutti? e tutto ciò in un clima sempre più nervoso e aggressivo, dove il dialogo cede spesso il passo allo scontro. Eppure è solo con il dialogo, la cura e ricerca costante del bene comune, la formazione continua, l’apertura alle innovazioni, la creatività e il coraggio di tentare soluzioni nuove, che possiamo costruire il futuro.

 

Sono partito democratico, e non torno indietro.

Quando penso agli appuntamenti che ci attendono – le elezioni regionali in Lombardia, le elezioni politiche nazionali – penso che, in fondo, è su quelle questioni che si giocherà il loro esito. Ma quando ci penso, penso anche che non partiamo da zero nella ricerca delle risposte. Perchè – da dieci anni, oggi – c’è una cosa che si chiama Partito Democratico. E che mentre tanti, troppi, si illudono che basti chiudersi, o si rifugiano in improbabili nostalgie del passato, o buttano tutto nel pentolone del “tanto peggio, tanto meglio”, c’è qualcuno che non ha paura di alzare lo sguardo. Da dieci anni c’è in Italia un partito che ha cuore lo sviluppo e la solidarietà, che crede che ambiente e crescita non sono opposti, che pensa che impresa e lavoro possono formare un insieme virtuoso. Che è convinto le buone pratiche sperimentate da tanti amministratori sparpagliati per questa splendida penisola non possono restare sulle pagine della rivista dell’Anci ma devono diventare un esempio per tutti. Che sa che oggi essere più italiani passa dall’essere più europei. Che, in una politica sempre più divisa, ha l’ambizione di unire.

E penso tutto questo perché ho davanti agli occhi l’entusiasmo del gruppo del PD di Magenta, con i suoi giovani e meno giovani. La generosità dei volontari delle magliette gialle, alla Festa de l’Unità o alle mille iniziative a servizio di Milano e dei suoi quartieri. La convinzione, l’impegno, la passione delle tante persone che in giro per l’Italia, ciascuno sul proprio territorio, con modalità e idee diverse, ma con valori e identità comuni, formano quella rete straordinaria, quel popolo che si chiama Partito Democratico. E allora è da qui che si riparte, insieme.

Sono partito democratico, e non torno indietro.

Paolo Razzano

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