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Roger Federer e il tramonto a Wimbledon: la libertà di perdere, l’anatomia di una leggenda- di Teo Parini

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Dopo la finale più sciagurata della storia del tennis, disputata e gettata alle ortiche anzi nelle mani di Djokovic ormai due estati fa in Church Road, l’aver perso meritatamente il quarto di Wimbledon contro un onesto giocatore come Hurkacz, peraltro già vincitore del Masters 1000 di Miami e qui giustiziere di Medvedev, non deve avergli fatto particolarmente male. Roger Federer ne ha infatti viste troppe per non sapere che lo stop forzato per guarire dai malanni alle ginocchia, con quaranta primavere sulle spalle, gli avrebbe consentito di sconfiggere qualche giocatore scadente ipnotizzato dal suo blasone ma nulla più. Se Mannarino quasi lo estromette all’esordio prima di arrendersi a un infortunio e Gasquet è tipo capace di battersi da solo, Hurkacz è, diversamente da ciò che troppi spettatori improvvisati pensano, tennista concreto e valoroso tanto che Roger è finito in doccia macellato senza appello.
La riflessione da farsi, semmai, è come lo svizzero abbia potuto issarsi fino al mercoledì della seconda settimana nel torneo più prestigioso al mondo e la risposta, per chi non vende tappeti, sta nel livello tendente al pavimento del meglio che il tennis possa oggi offrire, in cui al più forte di tutti – Djokovic – è sufficiente rimettere in campo una palla più degli altri, scomodando sì e no un paio di opzioni tecnico-tattiche per non perdere mai. Morale, la sorpresa vera è vedere il basilese giocarsi l’accesso in semifinale mica che poi non sia riuscito nell’intento.
Federer è il più abbacinante talento che si sia prestato al tennis da quando le racchette hanno smesso di essere di legno e, fosse anche solo per questo, nessuno dei comuni mortali fruitori del bello ha il diritto di pretendere da lui che smetta con l’agone solo perché definitivamente impossibilitato a vincere. Dovesse avere la voglia di spegnere le cinquanta candeline perdendo al primo turno dell’Open della Lomellina, l’atteggiamento più consono del tifoso di tennis sarebbe quello di rallegrarsi per il suo sapersi ancora divertire giocando. Per vent’anni Federer ha assicurato che il meraviglioso sport di Laver e McEnroe non finisse egemonizzato, più di quanto non sia comunque successo, dai gladiatori del corri-e-tira, garantendo altresì che dei playground di mezzo mondo si facesse ogni volta più un Bolshoi che un Colosseo. Il prezzo da pagare a ciò che è stato, e conseguentemente al disincanto sportivo, è che nella conta dei punti anche un Andujar qualsiasi possa essergli superiore ma nessuno è tanto importante da potersi lagnare di ciò finché il diretto interessato non decida autonomamente di dire basta. Invece è un continuo invocare al ritiro da parte di coloro che a malapena distinguono un cross da un lungolinea.
L’assioma è che nessuno abbia mai dato a Federer quanto lui abbia dato a noi.
Roger non ha disimparato a giocare, anzi, ma quello che prima realizzava con serafica semplicità a cento all’ora ora lo fa a mezza velocità e nemmeno la mano più educata di questo e altri eventuali universi è in grado di sovvertire le leggi della cinematica. Del resto è umano: speciale ma uomo. Fanno incazzare coloro che fino alla fine hanno sperato che il centrale di Wimbledon, il giardino di casa Federer, potesse restituirgli per osmosi lo splendore che fu ma nel tennis, esercizio diabolico, nulla si inventa. Le favole non le regalano al supermercato ma si costruiscono, qualora possibile.
Non è mai il caso di fare drammi. Il calcio è sopravvissuto al ritiro di Maradona, il ciclismo a quello di Pantani e lo sci a quello di Tomba. Il tennis non farà eccezione e anche senza Federer troverà il modo per tornare a splendere. Del resto da questa versione del gioco globalmente insapore si può solo pensare di migliorare.
Teo Parini

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