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Radici in crescita, sequenza giornaliera degli accadimenti, di Ivan D’Agostini- 28 e 29 marzo

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Ventottomarzo

Un puntino verde minuscolo, compare in un altro sito; un’altra occasione per manifestare il tutto. Anzi a ben vedere, e oggi ho pure preso la lente “che diamine” mi son detto cerchiamo di sbirciare nelle profondità, nelle segrete di quel mondo, per vedere cosa succede e, “sentite, sentite”, due e non una protuberanza, stanno finalmente emergendo dal fondo dello scuro abisso.

Il vetro convesso sposta e trasla lo sguardo, una telecamera mobile che avanza sulla superficie e il mio occhio che, finalmente adunco sulle immagini che la retina trasmette al mio cervello, a sua volta golosamente rielabora quei flussi elettrici, quelle riprese da vicino, che aprono un mondo diverso, persino nuovo nella sua catarsi formale. La superficie appare rugosa, una selenica piattaforma, piena di colori, però!

Piena e densa di materia, di brulichii sommersi. Un triangolo, hanno disegnato un triangolo queste prime nascite. Avrebbero potuto segnare una linea, una curva, è apparso invece un triangolo, una figura perfetta nella sua definizione di equilibrio, come i tre giudici che, imparzialmente, decidono le sorti ed emettono il responso, la sintesi del giudizio.

Ma poi che giudizio e giudizio.

Ma dove stare, come fare con chi e come, sono scelte che ognuno di noi dovrebbe poter compiere in totale libertà. O no?

Ventinovemarzo

Noia, stanchezza, stufo e stanco, così oggi il mio corpo reagisce, male, alle sollecitudini che il tempo, non solo meteorologico, impone alla mia fisicità.

Nel silenzio della notte, stanotte i miei sogni, le fantasie oniriche che liberano la mente fustigano le angosce che ogni uomo possiede, che ha al suo interno, quelle urla hanno lacerato l’aria. Gridavo a più non posso, contro un uomo in divisa, l’autorità costituita che, incurante delle mie necessità, spostava, traslava le mie librerie “ma dico, ma mi domando e dico con quale titolo voi assumete a rischio la posizione di quell’angolo di libreria?”  e il gendarme, sordo ai miei reclami, spostava, scollava svitava dall’angolo, dal mucchio, la mia struttura, asportava con dovizia peregrina le mie preziose reliquie, i miei possedimenti, la mia merce, la mia carta stampata, la mia adorata carta stampata. Scale e ripiani da percorrere con fatica e mentre cercavo di riacciuffare il maltolto, l’alba mi ha percosso con le sue tenaglie che mi hanno strappato da quella fustigante irrealtà e mi hanno rimesso nel giorno. Già il giorno, il giorno che oggi avrei voluto ritardare nella sua comparsa, per starmene un po’ lì, in mezzo alle lenzuola che sanno della pelle, che emanano i profumi dei nostri corpi, che liberano gli aromi che scatenano, non solo la notte, i desideri, le pulsazioni che ora, in questa primavera strana e ora calda, irrompono nella pelle. E mentre stavo lì, a cincischiare con il piumino “m’alzo, sto qui, ancora qualche minuto, via via alzarsi che è tardi” pensavo al tempo, a cosa avrei fatto nella giornata che si apriva ai miei occhi e che rischiavo di fare tardi, tardi,

Già ma tardi per cosa? ogni attimo ha il suo significato ed è giusto impiegarlo, viverlo nella sua pienezza.

 

Un foglio, una preghiera, da lasciare ogni giornata, ogni momento sulla panca, sul piano che raccoglie i gomiti, le braccia, le mani di quanti hanno rivolto al padreterno le loro istanze. Un rito supremo, un rito interno, che piega l’anima all’umiltà, alla riflessione, alla circoncisione del superfluo e magari anche alle necessità. Ti accorgi che poco importa se la genuflessione è solo mentale, poco importa se quelle preghiere, che ahimè non ricordi più, ti escono dalla mente più che dalle labbra, e non per vergogna ma per conservare quel silenzio magico, quella calda nube che pare avvolgere tutto. E qui lo spazio si contrae, si mummifica intorno ai pensieri che invece al contrario, in quello spazio senza tempo e confini, invece iniziano a liberarsi, a riempire quello spazio e più riempi e più si dilata, giorno notte freddo caldo mesi anni lustri, tutto si espande. D’improvviso i ricordi, i colori, i momenti, stanno nel cielo di quella stanza. Ruotano, girano, piroettano, sembrano immagini reali: ecco sei in colonia con il don Giuseppe detto “stracanai” (credo, non so bene), sei lì ad Ameno, sei fasciato perché sei caduto a seguito di  una delle tue innumerevoli pirlate ( che ancora dopo mezzo secolo ancora farai), la gamba e il braccio interamente fasciati, ahh quelle signorine maledette che quando ti scappava la pipì ti costringevano a letto per il riposino pomeridiano, mentre loro nel loro baldacchino protetto dal telo bianco chissà cosa facevano, mi pare di ricordare che udivo strani mugolii giungere dal fondo dei ricordi; e poi ancora la foto, già la foto di gruppo e tu celato dietro con la faccia, quella strana faccia che a tratti ti piace e a tratti ti fa schifo, quella faccia oltremodo sorridente, quella faccia, che mi fa ridere dirlo, è sfacciata, che irride, si fa beffa della piccola tragedia. Un volo e che volo, mentre raccoglievi, prendevi i fili del rampicante per fare i cestini, oggetti inservibili che non avrebbe usato nessuno e che, alla fine dell’estate il guardiano, un uomo di cui non so’ l’esistenza, ma un guardiano doveva pur esserci a riassettare il tutto alla fine delle vacanze collettive, avrebbe gettato via, pulito, riordinato e via pronti per la prossima raccolta.

Loro, i rampicanti avrebbero avuto a disposizione tutto l’autunno per riassettarsi, l’inverno per riprogettare le uscite e la primavera e un tocchettino d’estate, per prepararci la materia da utilizzare. Un gioco alternato, un rito che chissà com’è finito.

Mi dicono chiuso, oggi la colonia non usa più.

Siamo diventati ricchi, forse?

Torno sul davanzale, i deboli segni sono ancora lì, ed è già abbastanza di questi tempi, certo ieri ho intravisto altro ed oggi pure, come quei leggeri rigonfiamenti, ma …

Non oso.

Non presumo.

Non suggerisco.

Attendo, con pazienza, attendo gli eventi, sposto la mia attenzione da un lato all’altro, sposto la mia curiosità da un punto all’altro. Come un cuoco che ricerca la ricetta perfetta, mescolo di continuo la broda, estraggo campioni che miscelo di volta in volta, modificandoli, elaborandoli, inserendo polveri di erbe aromatiche, estratti di brodi, pezzettini di carne, verdure crude o cotte, appassisco l’intingolo, raccolgo tutto in quella meravigliosa biblioteca delle esperienze, classifico, estendo i sapori, confronto le esperienze, sottopongo ad altri i miei preparati. Espongo i risultati sul canovaccio della mia giornata.

Di là, sulla matrice, il “vassoio” è sempre carico di quei tre lembi, che intanto crescono, lo stelo si fa più robusto, foglie nuove sono nate e catturano la luce restituendo vita sotto, nell’intimo del loro sostegno; le teste sempre piegate verso il buco della luce, verso il mezzogiorno, verso il sole, naturalmente e semplicemente.

Mi aiuta questa metafora antesignana delle regole della vita, semplici ed elementari, una matematica euclidea di base. Somme fondamentali, requisiti essenziali per la costruzione, un pezzo sopra l’altro, base di anelli concentrici, che crescono prima dalla base verso l’apice, poi subito dopo, dall’interno verso l’esterno, completato questo ecco, che dopo un calcolato e regolare intervallo, dal fusto così composto, emergono due punti, due fili racchiusi, le nuove foglie che saranno pronte anch’esse per l’attività di crescita, continueranno, in simbiosi, per la crescita del fusto comune e insieme aggiungeranno materia alla materia in una continua elaborazione, trasformazione e restituzione dei componenti essenziali.

Il mio “vassoio”, un laboratorio di e per questo piccolo mondo.

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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