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Radici in crescita, sequenza giornaliera degli accadimenti- di Ivan D’Agostini, 14 febbraio

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Quattordicifebbraio

 

A volte, ma in alcune questioni, sempre, l’essenziale, la base, solida e corposa della materia, fa da volano per l’espletamento delle azioni. Così stamane ho visto le mie tenere foglioline, anche quella che a sinistra sta; il boschetto che si va costruendo, con le due matrici sempre più larghe che lasceranno spazio, ben presto, alla vera essenza del vegetale, ora embrionale. Disquisire adesso della futura forma che un giorno avrà e che noi, minuscoli esseri, non riusciremo mai a vedere a compimento (gli alberi sono troppo longevi e lenti di noi per permetterci di vedere l’arco della loro progressione dall’inizio alla fine) è un puro esercizio, e nemmeno accademico.

 

Bene quindi, dalla garza, che ha protetto il seme durante il piccolo freddo del locale, la coltre bianca che ho similmente posto come la neve nel campo, lascia ora il posto al sedimento di sempre; ben presto le radici si congiungeranno ai minuscoli grani, la tela si farà fitta e unità, sul fondo si formerà una base che stringerà nella morsa, tenaglia in fieri, ogni piccola parte, delicatamente, questa trama tesserà[1] vincoli sopranaturali, entrerà nei pori della terraglia, quasi uscirà dai minuscoli fori della materia e sosterrà il virgulto.

trama

Metafore, esempi, parallelismi; esorcismi di un passato che verrà, ben ora a vedere cosa e come il frutto si adagerà nel seno, nell’incavo dei rami storti, vedremo anche i fiori?

Attesa, paziente e insonora, lo sguardo verso la luce, il pensiero nel buio, l’anima rivolge verso il giorno, il corpo nella notte, a riposare le fibre.

E se crescessero al contrario?

Perché solo la luce se ne sta li ad attrarre la parte in alto che dall’alto finisce col l’essere in basso, sopraffatta dalla sua stessa voglia di diventare, l’apice che diventa pedice del nuovo apice, e così via, fino a quella fine che l’uomo, padre del seme piantato non ne vedrà mai la chiusura, posto però che la stessa non sia morbida anziché legnosa. Se è vero come è vero che il calore serve a quella vita, così come serve alla nostra e se è vero come è vero che pure l’aria diventa un sostegno, forte e sicuro poiché elastico, il tessuto libero da impegni troppo labili per affidarcisi , di quel terreno in costante evoluzione, che dal Pangea originario, che ha trasformato, financo anche inghiottito, la suggestiva Atlantide, nel trasparente e burrascoso Atlantico, per finire alle dorsali pruriginose dell’Europa vecchia e malandata, li a scontrarsi e a bellicare, a guerreggiare con la sagacia – idiota -dell’uomo. Se, quindi se, la natura fosse stata meno malandata e avesse scoperto che la semplicità dell’aggancio può essere un filamento piccicoso, melenso e schifido, ma che non si vede, come la colla del ragno che tesse, tesse, tesse, il sottile lembo della vita sua e della soccombenza di altri, se quindi la natura fosse stata ingenerosa verso la matrice e devota alla suprema volta (il cielo?), non avremo forse una liberazione dalla gravità?

Eppure in parte, alcune delle specie in tal senso si sono evolute. Giù nelle grotte anseatiche strani girini vivono senza che il confine del loro mondo si palesi a noi poveri mortali, su abbarbicate a resti, vivi o morti, altri esseri vivono aggrappati, edere precolombiane si nutrono nell’aria e dell’aria.

Allora, finalmente, in un labirinto di fantascienza ciò parrebbe realmente possibile!

[1] Il riferimento è chiaramente alle radici, quelle RADICI IN CRESCITA che non vediamo, se non raramente come quelle delle mangrovie  o più normalmente quelle del domestico FICUS BENJAMIN, le cui radici affiorano dal vecchio vaso o pencolano dai rami protesi verso la finestra.

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