― pubblicità ―

Dall'archivio:

Quel pasticcio dell’8 settembre 1943: l’armistizio che divise il Paese

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

Beppe Fenoglio in “Primavera di bellezza” raccontò l’8 settembre del 1943 dal punto di vista di un soldato: “E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidere i tedeschi – auto disarmarsi – non cedere le armi”.

Mussolini era stato deposto dal Gran consiglio del Fascismo il 25 luglio 1943. Quel giorno il re Vittorio Emanuele III aveva nominato capo del Governo il maresciallo Pietro Badoglio, ex capo di Stato maggiore. Fu lui ad autorizzare la firma della resa il 3 settembre 1943.

L’armistizio di Cassibile fu siglato segretamente tra il generale Castellano, incaricato da Badoglio, e il suo pari grado americano Eisenhower che nel 1953 sarebbe diventato il 34° presidente degli Stati Uniti.  I tentennamenti di Badoglio nel comunicare l’Armistizio furono la causa dei bombardamenti degli Alleati su Napoli il 6 settembre, su Viterbo, Civitavecchia il 7.

Eppure l’armistizio fu reso pubblico dal Governo italiano solamente 5 giorni dopo.

Con lo sbarco in Sicilia degli Alleati, il 10 luglio, il governo italiano aveva perso tempo prezioso nel tentativo di evitare una resa senza condizioni.

Alle 19:45 dell’8 settembre Badoglio lesse ai microfoni dell’Eiar (antesignana Rai) il suo proclama, che includeva un passaggio decisamente ambiguo, le clausole armistiziali furono erroneamente interpretata dai soldati come la fine della guerra.

[…] Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza […]

A nessuno fu chiaro che cosa si dovesse fare: non sparare più agli americani? Iniziare a colpire i tedeschi?

Il proclama era poco esplicito. Inoltre, furono dimenticate di includere nell’Armistizio i civili e soldati italiani dislocati nelle colonie, i soldati italiani che affiancavano i tedeschi sul fronte russo, i soldati italiani dislocati in Corsica o in altre zone non in confine italiano come la Grecia (vd eccidio di Cefalonia) e le concessioni in Cina a Tientzsin dove era posizionato il Battaglione San Marco in difesa di civili che lavoravano in terra asiatica fianco a fianco con i Giapponesi (che diventeranno ex-alleati) ed Inglesi che dovranno liberare l’Italia.

La Marina avrebbe dovuto consegnarsi ai Britannici puntando verso Malta con un drappo scuro posizionato di fianco alla bandiera italiana e l’Aviazione avrebbe dovuto raccogliersi a Decimomannu e volare verso la Sicilia con i carrelli abbassati in segno di pace. Troppo difficili le comunicazioni in quel caos e non chiare a tutti i comandanti alti in grado.

 

I primi a pagarne le spese furono i soldati. Ordinando alle forze armate italiane di reagire solo se attaccate, il proclama sembrava sottintendere che fossero gli Americani o le forze Alleate a guidare un attacco contro i tedeschi al posto italiano nei punti nevralgici del Paese. Ma questo non avvenne.

Come se non bastasse, i vertici politici del Paese abbandonarono le postazioni: all’alba del 9 settembre, con le prime notizie di un’avanzata di truppe tedesche verso Roma, il re, la regina, Badoglio e altri pezzi grossi dello Stato maggiore fuggirono da Roma e si fermarono a Brindisi che divenne per qualche mese la sede degli Enti istituzionali.

Intanto, nessuna misura era stata prevista per difendere la capitale, e l’esercito, lasciato senza ordini, in molti casi lasciò la divisa e si mise abiti civili.

La reazione tedesca non si fece attendere. Il comando supremo delle forze armate del Reich diede via al Piano Achse, già pronto da tempo. La notte stessa dell’8 settembre le forze tedesche presero possesso di aeroporti, stazioni ferroviarie e caserme, cogliendo di sorpresa le forze italiane restate a difendere.

I tedeschi emanarono poi le direttive da applicare per il disarmo dei militari italiani, che dovevano essere suddivisi in tre gruppi: chi accettava di continuare a combattere dalla loro parte poteva conservare le armi; chi non lo faceva era mandato nei campi di internamento in Germania come prigioniero di guerra, mentre chi opponeva resistenza o si schierava con le forze partigiane veniva fucilato, se era un ufficiale, oppure impiegato nei campi di lavoro sul posto o nell’Europa occupata.

Per i civili le cose non andarono meglio. L’Italia era già abituata al razionamento alimentare introdotto durante la guerra e il mercato nero era già la prassi anche prima dell’8 settembre.

Dopo l’armistizio però la situazione s’inasprì, perché gli occupanti tedeschi fecero requisizioni di ogni genere e bloccarono la distribuzione di carburante di provenienza tedesca al Sud. C’erano tessere annonarie per quasi tutto, dal sapone al cibo all’abbigliamento.

La popolazione, che si era illusa che la guerra fosse finalmente finita, prese atto che così non era. Il conflitto si trascinò ancora per più di un anno, fino alla primavera del 1945 con l’aggravante di trasformarsi in una sorta di grande guerra civile.

 

Laura Giulia D’Orso

 

 

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

■ Prima Pagina di Oggi