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Quando i poeti narrano i borghi- da CulturaIdentità

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Tra paesologia e restanza, il vademecum per i futuri narratori dei borghi
Cercansi narratori di aree interne, di qualsiasi età e credo politico, con una solida autonomia di pensiero e la predisposizione alla paesitudine, abituati alla privazione e all’attesa, voraci recuperatori di memorie, pronti a seminare e raccogliere storie in terre emarginate, in lockdown da un’eternità.

L’annuncio vale ancora di più la candela se si pensa, dopo la mazzata del covid, al riaccendersi del turismo di prossimità, al ritorno in case di villeggiatura finora snobbate per esotiche evasioni, alla riconquista di luoghi salubri col fregio del silenzio e lo stupore green, al fermento sul rilancio dei borghi con il recovery fund, alla riscoperta dell’Italia interna, quella dei territori marginali, distanziati per natura dagli assembramenti urbani, lontani da servizi e infrastrutture, magnifici e desolati, in via d’estinzione come i lupi, pur contando oltre 4000 comuni e una popolazione di circa 13 milioni.

“L’Italia è bella dentro”, il libro del giornalista Luca Martinelli sulla resistenza socioculturale ed economica delle aree interne, è un titolo indovinato. C’è una parte del Paese dalla bellezza interiore, percepibile non nella velocità, intima come le piccole chiese che raduna, carica di sacre culture, esclusa per costituzione geografica, visioni pigre e calpestate produttività dal circo delle ambizioni, quasi rassegnata allo spopolamento, con i giovani costretti a lasciarla e i vecchi a custodirne il museo d’ombre.

Quest’Italia lenta, riservata e silente, che si estingue, ricorda, resta, resiste, conserva e prova a esserci nel contemporaneo, meriterebbe un contraltare creativo e comunicativo al gran ciacolare della politica e all’automatismo superficiale del mainstream mediatico, che ne predilige le cronache impazzite, la retorica dell’eroe solitario o dello scemo del villaggio. Sarebbe auspicabile per le aree interne non solo una narrazione dal rigoroso realismo antropologico, quanto la costruzione di una nuova narrativa che sappia raccontarne l’esclusività e l’esclusione, indagarne le vocazioni territoriali e il respiro universale, sondarne il vero e il verosimile, la magia e il disincanto. Un’altra letteratura di spazialità alternative, che dai monti giudiziosi del Nord all’ossatura dell’Italia del guado, dalle afe azzurre del Far-Sud alla solennità delle pietre isolane, consegni mitologie di superstiti e amori rurali, censisca luoghi finora inascoltati, mestieri dati per finiti, facce, linguaggi, lutti, aspirazioni, liturgie e dicerie per ingegnare opere extraurbane, tessute con le radici del locale.

Tra i libri premiati allo Strega negli ultimi dieci anni, solo due possono ritenersi collegabili a una letteratura d’area interna: “Le otto montagne” di Paolo Cognetti (vincitore nel 2017), romanzo di formazione ambientato in un piccolo paese della Valle d’Aosta, e “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi (primo nel 2010), epopea della famiglia Peruzzi, contadini che vivono nella bassa Pianura Padana fra Rovigo e Ferrara.

Non ci allontaniamo dalla verità nel dire che tra libri di narrativa italiana più venduti nell’era dei social e dello streaming, lasciando stare le operazioni d’intrattenimento che poggiano sul nulla (biografie non degradabili, porcherie d’influencer), scorrono pagine di generi
come il giallo, il noir e il thriller, di vicende amorose tendenti al distruttivo, di storie familiari all’inseguimento dell’amica geniale, con
trame solitamente che si snodano in una “letteratura di città”, mobile e clamorosa, o in una “letteratura di periferia”, alienante, vendicativa
e notturna.

L’Italia di dentro, periferia delle periferie, è marginale come la sua letteratura, stretta nella morsa di tendenze che appaiono più attrattive, in sintonia con l’algoritmo della modernità. Ciò non preclude, anzi fortifica il bisogno di lavorare a un’altra narrativa vestita di borghi e non di borgate, guardiana di aie e contrade, ascoltatrice di sentimenti sommersi, promotrice di altre vite e riscatti non metropolitani.

Agli aspiranti scrittori di quest’altra letteratura, che ci piace chiamare “interna”, qualche suggerimento sentiamo di darlo. Un’essenziale
segnaletica per orientarsi in questo sentiero alternativo di conoscenza, così lontano dalle città e dalla movida letteraria.

Prima d’avventurarvi nell’impresa, tornate nei campi dei narratori di terra (Manzoni, Nievo, Fogazzaro Verga, Capuana, Soffici, Tozzi, Bacchelli, De Roberto, Silone, Jovine, Pratolini, Fenoglio, Pasolini, Scotellaro), scoprite la gloriosa narrativa a ispirazione locale, di matrice strapaesana, dolorosa, tenace e agreste, con le campane dei paesi che regolano il passaggio del tempo. Non potete fare a meno del d’Annunzio di “Terra vergine” e “Le novelle della Pescara”, dell’Alvaro di “Gente in Aspromonte”, del Pavese di “Lavorare Stanca”, “Paesi tuoi” e “La luna e i falò”, del Meneghello di “Libera nos a malo” del Rea di “Ninfa plebea”; frequentate e studiate il Gadda de “Le meraviglie d’Italia”, il nostalgico Bufalino, il Pirandello delle novelle, le pagine selvagge e lunari di Landolfi, le microstorie di Sciascia dalle campagne di Racalmuto raccolte in “Occhio di capra”, i valzer della neve di Rigoni Stern, i reportage letterari di Piovene e Soldati, i diari di Flaiano, le pianure di Celati, le leggende dalla Barbagia di Niffoi, i cieli siculi e narcotizzanti di Alajmo.

Leggete, scrivete e radicatevi. Non importa se sarete narratori di “paesologia” (termine inventato dal poeta irpino Franco Arminio che sta a indicare lo studio ossessivo della decomposizione dei paesi e delle sue coscienze, quasi un’autopsia del paesaggio tra borghi diventati «dimore ideali per gli amanti del patologico, per gli esteti della desolazione») o autori di “restanza” (parola coniata dall’antropologo Jacques Deridda, ovvero la missione e il sacrificio di non voler staccarsi dalle radici): qualsiasi sia la storia immaginata, calatevi amorosamente nell’identità dei luoghi.

Svestite i panni di forestiero, registrate i “cunti” del camino, snocciolate il rosario delle fiabe contadine. Recuperate la mitologia dei boschi e la ritualità del desco. Appassionatevi al formulario magico dei dialetti per conservarne il suono e il sillabario carnale. Prendete lezioni di controra al bar della piazza perché è il momento dello sposalizio tra cielo e terra non visibile nel fragore urbano. Praticate l’arte del ricordo: è l’unico dado che avete per trasformare l’assenza in presenza.

Credeteci in quest’Italia interiore e nella sua possibile letteratura “in dissolvenza”. Innamoratevi al pensiero di scrivere sulle terre di dentro in cui il viaggio è restare

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