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Personaggi: un uomo semplice. Di Emanuele Torreggiani

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Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

MAGENTA –  Il suo italiano è buono. Ogni parola la trova con cura e la esprime nell’aspra dizione che orienta orizzonti sconosciuti. Arie infinite e vaste terre percorse da candidi cirri che segnano il vento, e un’aquila plana. Agguglia il filo alla cruna nella composta manualità del mestiere e l’appunta al bavero della giacchetta che ha visto le stagioni degli anni. Subito, dice della sua condizione, subito in prima gioventù quando mi si proibì l’ingresso alla scuola secondaria e mi si indirizzò al lavoro. Potei solo scegliere, tra il sarto e la meccanica. Arrotola due sigarette d’un tabacco aromatico e dolce. Le fumiamo all’impiedi davanti il suo laboratorio mentre le auto vanno e vengono, il fumo bigio e denso invoca bivacchi e nenie carovaniere mentre le aquile appontano agli alti picchi e un montone girovaga per la piana brulla belando al tramonto imminente come qui, nell’infilata della via consegnata all’acciecante luce occidentale che ci impone di voltarci verso un’oriente già in gramaglie. E così ho scelto, mio padre decise di farmi imparare il mestiere del sarto che avrei poi potuto, di nascosto, arrotondare qualche soldo sullo stipendio dello Stato. Ci guardiamo. Vedo i suoi occhi chiari gonfi di stanchezza affastellata nei decenni. Siamo coetanei. Cosa egli veda nei miei non lo so. Lungo la strada cittadina le auto vanno e vengono. Ora serale di punta. Il disegno di vaste terre e infinite arie e montoni e aquile e nenie carovaniere collima in un perimetro definito da sbiaditi affissi di propaganda, soldati ciondolanti, cavalli di frisia, posti di blocco e camionette arrugginite. Ed è andata così. Visto che avevo già un fratello a scuola, io sono stato consegnato al lavoro. E quando tutto è finito, come finiscono le sigarette, e non c’era nessuno stipendio mi sono adattato a fare il commercio di stoffe. Mi sono arrabattato. Compravi in giro, andavamo in Romania, in Bielorussia, in Turchia, compravi nei mercati la stoffa che noi si andava rivendere a Durazzo, Tirana, per le strade dei paesi con i carretti a motore. Ma è durato poco. In un paio d’anni sono entrati quelli delle confezioni. Comperavano migliaia di capi già fatti. Avevano molti soldi. E nessuno ti comprava più la stoffa per ricavarci una camicia, una gonna, un abito. In tre anni dalla fine del comunismo albanese era come qui.

Goga il sarto albanese della via Novara.

 

E si guarda intorno. La gente che passa vestita tutta in modo uguale. E sono venuto qui. Un mestiere, un lavoro, una pagnotta la si guadagna. Ripari, cuci. Qualcuno ti porta la stoffa per tagliargli la camicia come desidera, anche un abito come non lo si trova confezionato. Gli chiedo del comunismo albanese. Ha preso la vita a tutti. Caserme vuote. Casematte davanti al mare grande. Fortificazioni sugli altipiani nido di serpi e gramigne. Non ha lasciato niente. Niente. Non ha lasciato una canzone, un libro, un dipinto. Nulla di quello che i popoli lasciano quando vanno via per sempre. È andata così. Una vita fumata. E spegne la sigaretta ormai mozzicone.

Emanuele Torreggiani

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