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Perché ‘num lumbard’ saremo sempre dei Senzabrera (da Il Foglio)

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In quel mare padano di brume che appaiono e quasi mai scompaiono, di terra stesa che sembra infinita, di orizzonti tutti uguali almeno sino a quando il sole decide di prendere il proscenio e rendere visione ciò che troppo spesso è solo intuizione – le montagne –, capita che i campi brinosi si animino all’improvviso. Basta qualche raggio di luce ed è tutta una gibigiana che quasi non ci si crede. Uno sfarfallio di colori che dal giallo si stingono nel bianco ed ecco che tutta la piana appare come un enorme albero di Natale.

 

Fu in una mattina così, si fosse laggiù tra pais cont el cù bass o tra i filàr de Barbacarlo, oppure in città tra semafori e palazzoni, che arrivò la notizia. Tre parole che quasi c’era da non crederci. D’altra parte non c’era stato avviso e, soprattutto, non c’erano stati indizi. Un’evidenza invece c’era ed era palese: d’ora in poi si era Senzabrera, o almeno Senzabrera era chiunque ritenesse lo sport qualcosa non solo da guardare, da tifare, da chiacchierare, ma, anche e forse soprattutto, da leggere. Gianni Brera per generazioni di sportivanti italiani, e gli sportivanti italiani sono tutti da divano e da sedia da bar o da osteria, era lo zio con cui fare i conti, quello che la sapeva sempre troppo lunga, che a volte la faceva difficile e lunga. Quello con cui magari non si andava d’accordo, con cui si litigava spesso e volentieri. Ma sempre per il gusto di farlo, sempre con la volontà di far polemica, certo, ma anche con l’accortezza di starlo a sentire.

 

Gioânnbrerafucarlo morì alle tre di notte del 19 dicembre 1992, ventisette anni fa, in un’incidente stradale. Ma fu di mattina, in una di quelle mattine di gibigiana, che la gente seppe di essere Senzabrera. La notizia l’appresero tutti dalla radio, poi dalla televisione. Come fosse un bello scherzo del destino: perché per uno che credeva che la parola fosse più bella e più precisa quando era scritta, tutto questo vociare, forse, poteva non far piacere.

 


Una giornata a San Zenone al Po tra amici, conoscenti, allievi e amanti del Gioânn per tentare di capire come mai siano ancora così tanti i senzabrera


 

Quel sentimento di abbandono prese un nome esattamente un anno dopo. Ci pensò Gianni Mura a darglielo: “Da un anno siamo i Senzabrera, che scritto così sembra il cognome d’una famiglia di Salamanca o di Tucuman e forse ci frega la voglia di un neologismo: è una delle strette in cui si ritrovano i Senzabrera. Non siamo solo noi intesi come redazione sportiva di Repubblica. Ce ne sono tanti altri, da un anno giusto, da un giorno ingiusto”, scrisse su Repubblica.

 

“Saremo sempre i Senzabrera, saremo sempre senza Brera”, dice al Foglio il cantautore Claudio Sanfilippo. “E lo siamo e lo saremo perché Gianni Brera era un mondo. Lui trascendeva il giornalismo o la passione per lo sport. È uno di quei casi nei quali il giornalista-scrittore o lo scrittore-giornalista, lo si chiami come si vuole, riesce a rappresentare, forse inconsciamente, un modo di sentire le cose, di interpretare ciò che c’è. Già che Gianni Mura abbia attribuito un termine a questa assenza, un nome proprio, solo per lui, dà la misura di cos’è stato Gioânnbrerafucarlo”.

L’universo di Gianni Brera è un universo composito e complesso, non per questo difficile. È un incontrarsi di piccole e grandi storie, di influssi differenti e opposti, dove il popolare si mescola al raffinato, riuscendo ad andare a braccetto, quasi questo fosse naturale. D’altra parte lo diceva lui stesso di pensare “in dialetto, perché sono un popolano”. È un microcosmo ben delineato, che parla di campagna e di città, che unisce la campagna alla città, senza confini, senza barriere. “C’è chi da tutto questo mescolio ne è affascinato, come me, e chi invece non se ne accorge, legge e passa via. Brera si attaccava al tuo nervo scoperto. E quando questo accadeva eri fottuto. Quando da piccolo mio padre portava a casa il Giorno, io mi ci fiondavo, andavo alle pagine dello sport per leggere Brera. Era strano leggere quel linguaggio lì, mi affascinava”, continua Sanfilippo.

 

A Gianni Brera, o meglio al mondo di Gianni Brera, e all’essere Senzabrera, Claudio Sanfilippo ha dedicato una canzone, “anche se in ritardo”.

Mì sònt on Senzabrera, mi campi de paròll…Nel coeur gh’òo una bandéra che sventola de nòtt… 

“Tutto partì dall’articolo di Mura, da quel nome, Senzabrera, che trovo meraviglioso. Rimase lì, nella memoria, poi riapparve all’improvviso in un momento nel quale stavo scrivendo testi in milanese. Fu un’illuminazione. Un colpo della memoria. Perché quella parola, Senzabrera, era un fenomenale autoscatto di quelli come me, come tanti, che non avrebbero letto più Brera. Racchiudeva un’emozione”.

Baùscia e casciavìd, filàr de Barbacarlo / la pènna l’è on’ortiga, la pènna l’è on mestée pais cont el cù bass, colòr in gibigianna / la lùna de campagna, l’è fada de buttér

La Milano del calcio e dello sport ha sempre corso, in Brera, su stradine campestri, lungo filari collinari, sin dentro un biccèr. “C’era un meraviglioso istinto primordiale in lui, la consapevolezza che anche quando c’era bisogno di parlare e scrivere di cose importanti, alte, oppure nella semplice esigenza di fare buona scrittura, i piedi dovevano essere sempre a contatto con la terra. Riusciva a riportare tutto nella sua dimensione sensoriale, diretta, sincera delle cose”, sottolinea Sanfilippo.

Amis bon apetit, la s’cena l’è on pòo stracca / la pènna l’é ona spina, la pènna l’è on piaseèe

me piasaria vedè dù nomm còme on micol / che nàssen cònt i ciàccer nel ròss del tò biccèr

Era un buon bicchiere di vino Gioânnbrerafucarlo, un vino rosso strutturato e bilanciato, eppur sincero e forte, da berlo in un goto, su un tavolaccio d’osteria mentre si prova a convincersi di essere allenatori, si sciorinano ideologie e identità calcistiche con le quali non si dovrà per forza essere d’accordo. Perché va sempre a finire così, col Gianni “non si poteva andare d’accordo. Si doveva questionare, litigare, mandarlo a quel paese. Poi ritornare sui nostri passi, perché, in fondo, perdonarlo e leggerlo ancora”, conclude Sanfilippo.

Di Giovanni Battistuzzi (da ilfoglio.it)

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