― pubblicità ―

Dall'archivio:

Pensieri Talebani- Il falso storico del Nome della Rosa. Medioevo oscurantista? Andate a Morimondo…

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

Torna il Nome della Rosa. Dopo il libro di Umberto Eco e la celebre trasposizione cinematografica, ora arriva persino la fiction sui canali Rai. Riproponendo così il clamoroso falso storico del Medioevo come epoca oscura e tetra. Ci fa talmente sorridere che inviteremo chi accredita una simile sciocchezza di andare a farsi un giro a Morimondo… Buona lettura, quello che segue è un pezzo illuminante (nella sua semplicità).

 

Ritorna Il nome della rosa. Questa volta in versione di fiction televisiva. Non è bastata quella filmica con regia di Jean-Jacques Annaud, del 1986.

Il nostro tono è giustificato dal fatto che il celebre romanzo di Umberto Eco (1932-2016) non è affatto un romanzo storicamente attendibile, ma solo spudoratamente (consentiteci questo avverbio) “ideologico”. Un’ideologia del peggiore anticattolico neo-illuminismo.

Il nome della rosa può essere, al limite, considerato un romanzo storico, nel senso che alcuni suoi personaggi sono storicamente esistiti, ma non certo un romanzo storicamente attendibile.

Prima di tutto non lo è per come vengono raccontati certi personaggi realmente vissuti. Per esempio, il domenicano, inquisitore, Bernardo Gui (1261-1331) fu uomo colto, mite e clemente, tutt’altro da come viene descritto nel romanzo e soprattutto nel film del 1986… e presumiamo anche nella fiction televisiva.

Ma veniamo al dunque e vediamo di capire brevemente perché Il nome della rosa è un romanzo ideologico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La trama

In un monastero benedettino avvengono degli omicidi. Per risolvere il mistero, l’abate chiama un frate francescano, Gugliemo di Baskerville (Baskerville, dal famoso “giallo” Il mastino di Baskerville della serie di Sherlock Holmes. Eco infatti era un ammiratore di sir Arthur Conan Doyle, il creatore del celebre detective).

Questi scopre che a morire sono monaci che nella biblioteca erano venuti in contatto con un misterioso libro imbevuto di veleno. In realtà, si trattava del secondo libro della Poetica di Aristotele, in cui il celebre filosofo parla positivamente della commedia e quindi dell’allegria.

L’assassino è il bibliotecario, un anziano monaco, chiamato venerabile Jorge, il quale decide di continuare a tenere all’oscuro il libro di Aristotele affinché non si alterasse l’immagine che il medioevo voleva dare del filosofo. Un immagine seriosa e oscurantista, compatibile con una cultura, come quella cattolico-medioevale, che sarebbe stata altrettanto seriosa e oscurantista, ovviamente secondo le convinzioni neo-illuministe.

Ci sono dunque due elementi molto importanti che dimostrano l’inattendibilità del romanzo. Il primo è la presunta avversione medievale verso l’allegria; il secondo l’intento censorio della cultura monastica. 

Avversione verso l’allegria

Il medioevo sarebbe un’epoca “seriosa”, intollerante nei confronti dell’allegria. Grande sciocchezza!

Se c’è stata un’epoca amante dell’allegria questa è stata appunto il medioevo. Ci sono tanti segni che lo dimostrano. Solo alcuni esempi.

I medievali aggiunsero ufficiosamente un ottavo peccato capitale: la tristitia. Avevano ben capito che il cristiano, malgrado le prove della vita, non può mai assecondare la tristezza.

I medievali avevano un atteggiamento positivo nei confronti della vita che dimostravano attraverso varie espressioni artistiche, fra cui anche l’amore per il forte contrasto cromatico che contraddistingueva i dipinti, le vetrate delle cattedrali, l’araldica, il vestiario, le miniature…

Nel medioevo il suicidio era pressoché inesistente.

Ma poi, a tagliare la testa al toro, come si suol dire, è ciò che scrive san Tommaso d’Aquino (1225-1274), massima espressione della filosofia e teologia di questo periodo, il quale nella II-II, questione 168, della Summa, citando sant’Ambrogio, dice che l’uomo equilibrato deve avere un volto sorridente. Se non è così, questi potrebbe nascondere un vizio.

Intento censorio della cultura monastica 

L’altro elemento che dimostra l’inattendibilità de Il nome della rosa è la convinzione secondo cui la cultura monastica avrebbe svolto un opera di censura nei confronti della cultura classica, trasmettendo ciò che è più o meno compatibile con il Cristianesimo, censurando ciò che è invece incompatibile.

Ora -diciamolo francamente- qui siamo su un’affermazione che è talmente errata da essere da “matita blu”.

Si sa che le opere letterarie del mondo classico sono arrivate a noi grazie alla mediazione della cultura monastica. Ora, se i monaci avessero voluto fare ciò che indirettamente sostiene Eco nel romanzo, noi dovremmo conoscere solo opere del mondo classico edificanti. Ciò che invece non è. Si pensi che il XIII secolo è stato definito dagli studiosi come l’età ovidiana, perché caratterizzata da una forte riscoperta di questo scrittore latino. Ebbene, tra le opere di Ovidio, vi è anche l’Ars amandi che è un’opera inequivocabilmente licenziosa. Come mai i monaci l’hanno trasmessa ugualmente?

Un romanzo anche “filosofico”

Rimane però un altro interrogativo. Perché Il nome della rosa si chiama così? Cosa c’entra la parola “nome” e la parola “rosa”?

Per rispondere dobbiamo necessariamente fare riferimento alla filosofia, ma cercheremo di essere quanto più semplici possibile.

Nel XIV secolo entrò in crisi la scolastica (la corrente filosofica il cui vertice fu il pensiero di san Tommaso). Da questa crisi subentrò un pensiero chiamato nominalismo che affermava l’impossibilità di conoscere una verità universale, ma solo verità particolari. Da qui la messa in discussione della possibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio e quindi anche l’esistenza di una morale universale. Pertanto si arrivò al principio della “doppia verità”: un conto è ciò che farebbe conoscere la fede, altro ciò che farebbe conoscere la ragione.

Ragione e fede possono anche contraddirsi. Anzi, in un certo qual modo devono contraddirsi per essere davvero se stesse.

Insomma, è il sorgere del dramma della modernità, con la sua carica inevitabilmente schizofrenica.

Ed ecco perché “nome della rosa“. Ciò che la ragione può conoscere sono solo gli oggetti particolari, gli universali altro non sarebbero che dei “nomi” (flatus vocis: espressioni vocali). Ed ecco il nominalismo; ed ecco anche lo scetticismo moderno. La verità? Sarebbe solo un’espressione vocale e basta!

E pensare che ci sono professori che pretendono insegnare ai nostri figli il medioevo con Il nome della rosa!

(da www.itresentieri.it)

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

■ Prima Pagina di Oggi