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Massimo Cacciari e la crisi della sinistra: una riflessione da leggere

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Pubblichiamo la trascrizione integrale di un discorso pronunciato da Massimo Cacciari il 4 giugno scorso a Milano

 

INTRODUZIONE
Sarò brevissimo perché credo che sia il caso di discutere a botta e risposta nei limiti del poco tempo che abbiamo. Chi poi mi conosce e ha avuto modo di leggere le cose che ho scritto e i miei interventi sulla stampa penso che già sappia come la penso.
Io penso che la crisi che attraversiamo sia di sistema e sia giunta ad un punto addirittura capace di travolgere le stesse istituzioni della repubblica.
Abbiamo sfiorato la catastrofe, ma anche l’averla sfiorata significa parecchio: quando hai una presidenza della repubblica che corre il rischio di presentare un proprio governo che non prende un voto in parlamento, sei di fronte ad una situazione che nessuna democrazia europea ha conosciuto nel secondo dopoguerra.
Una crisi di carattere davvero storico di cui sarebbe folle sottovalutare la pesantezza e la gravità. Ma questa crisi arriva da lontano. Attribuire la crisi ad eventi recenti, alla cronaca degli ultimi anni è totalmente sbagliato. La crisi della sinistra arriva da molto lontano e non è affatto colpa di qualche leader degli ultimi anni.

LA CRISI DEL MODELLO SOCIALDEMOCRATICO.
Tutto ha una data precisa. La data precisa si matura in questo paese tra gli anni ‘70 e ‘80, per tutti gli equilibri politici del paese e per la stessa sinistra. E’ lì che si manca – a volte succede – l’appuntamento con la storia. Si manca l’appuntamento con la storia quando un modello sociale e politico entra in crisi in tutto l’occidente. Il modello che ha retto tutti i paesi occidentali, in una forma o nell’altra, ma sostanzialmente tutti, nel secondo dopoguerra.
E’ un modello sostanzialmente socialdemocratico: il modello del welfare, il modello della democrazia progressiva di cui la sinistra è parte e parte propellente, perché il carattere progressivo di questa democrazia deriva essenzialmente, nel nostro paese in particolare, da una forza di sinistra.
Il modello viene in crisi per ragioni intrinseche. I maggiori teorici di cui ci si vantava anche in Italia negli anni ‘70 e ‘80 nel campo degli studi economico sociali lo avevano detto. I miei carissimi e compianti amici Claudio Napoleoni, Luigi Spaventa e tanti altri, (anche all’interno dello stesso partito comunista…, dirigenti come Luciano Barca, in parte come lo stesso Napolitano) avevano detto e ripetuto: “ badate il modello socialdemocratico come l’abbiamo conosciuto e che ha avuto così un grande successo non può più reggere”.
Se voi leggete Claudio Napoleoni, che fino all’ultimo nella sua vita si è sempre dichiarato comunista, teorizzava questo: “non può più reggere!”. Siamo in presenza di una crisi fiscale dello stato socialdemocratico, lo stato del benessere, il welfare state va radicalmente riformato perché il suo mantenimento, il suo funzionamento assorbe una tale quantità di ricchezza, una quota così crescente della ricchezza prodotta da esser alla lunga insostenibile: bisogna riformare drasticamente alcuni suoi principi, non si può continuare con l’universalità con cui si pensava di continuare ad andare avanti.
(Io ricordo sempre come un esempio quando nel movimento – quello che allora si chiamava movimento operaio- si gridò ad una grande vittoria del modello di stato sociale perché in alcune città dell’Emilia Romagna si viaggiava gratis sui mezzi pubblici (a Bologna per un certo periodo non si pagava il biglietto sui mezzi pubblici).)
Universalità, ma non era questo il problema. Il problema era la crescita enorme dei costi della macchina burocratica amministrativa. Allora occorreva la Spending review! Non adesso quando le metastasi hanno invaso tutto il corpo ed è praticamente impossibile la sua realizzazione.
Il movimento operaio, la sinistra rimase del tutto sorda a questi aspetti, nel riformare questo modello falsamente keynesiano (che con Keynes non c’entra assolutamente niente) : Keynes pensava ad un intervento statale ciclico o anticiclico non strutturale. Era un liberale Keynes non era né un socialdemocratico né un socialista di allora.

LE TRASFORMAZIONI DEL MONDO DEL LAVORO.
Secondo aspetto: le trasformazioni del mondo del lavoro. Come si faceva a non vedere . . . alcuni ne parlavano anche allora: la terza Italia, la crescita della piccola media industria… Il modello della socialdemocrazia rimase quello della grande industria, quello del rapporto tra capitale e lavoro (come) lavoro di massa, il lavoro industriale, il lavoro operaio, ma si stavano sviluppando altre forme di lavoro.
L’organizzazione del lavoro si stava trasformando radicalmente tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 per diversi motivi che non abbiamo qui il tempo di spiegare ma che sono stati spiegati abbondantemente.
Allora, un altro che lavorava nello stesso partito comunista, Bagnasco, teorizzava questo: “bada che le tue forme di organizzazione politica e le tue forme di organizzazione sindacale sono del tutto in dissonanza con le trasformazioni del mercato del lavoro”.
“Ogni anno, ogni mese e ogni giorno centinaia migliaia di quelli che erano classe operaia diventano piccoli imprenditori, sfruttatori di sé stessi, partite IVA. Renditi conto di queste trasformazioni sociali”.
No: smisero di dire che quelli delle partite IVA erano semplici evasori fiscali quando andava bene tra la fine degli anni ‘90 e nuovo millennio … solo allora cominciarono a capire qualche cosa.
Non sto incolpando nessuno. Sono trasformazioni sociali, politiche e culturali enormi, epocali quindi non facili da seguire e tanto meno da prevedere.
Da lì viene la crisi, lo smottamento della sinistra da ogni vero radicamento sociale, e quando dico sinistra dico i partiti che via via si sono succeduti nel tempo e soprattutto le forze sindacali, il movimento sindacale.
Non esiste in nessuna parte del mondo una sinistra o un movimento così definito che non abbia un rapporto organico con il sindacato. Non si tratta di cinghie di trasmissione o puttanate di questo genere. Si tratta di cose fisiologiche (senza) che valgono per gli USA come per la socialdemocrazia tedesca. Se si stacca questo rapporto o il sindacato cessa di essere veramente rappresentativo del lavoro nelle forme in cui storicamente questo lavoro viene erogato, viene meno la base materiale della forza politica della sinistra come è avvenuto da noi.

LE RIFORME ISTITUZIONALI.
Terzo grande capitolo: le riforme istituzionali. Io detesto le biografie e le autobiografie in particolare, ma anche qui, come citavo i Napoleoni gli Spaventa, ci furono amici e compagni nel partito comunista e anche fuori, nel partito socialista all’inizio dell’era Craxi (Amato e altri) che posero la questione: occorre aprire una fase costituente. Non perché la costituzione che abbiamo non vada bene nei principi fondamentali. E’ un modello di democrazia progressiva, ma sono evidenti i suoi limiti: i limiti soprattutto del capitolo quinto, i limiti per quanto riguarda gli assetti istituzionali, i limiti per quanto riguarda il governo e il parlamento.
E’ evidente che non si può continuare con una forma di bicameralismo: questo tema che è entrato nel linguaggio comune venti anni dopo era discorso corrente tra chi se ne intendeva, tra quelle competenze che allora vi erano tra le forze politiche e che poi sono sparite.
Quelle competenze dicevano questo. E non furono ascoltate o se furono in parte ascoltate in una fase iniziale, poi fallì tutto negli anni ‘80 come fallì la famosa bicamerale degli anni ‘90: fallimento dopo fallimento.
Soprattutto non venne compresa l’esigenza fondamentale che muoveva il discorso sulla riforma costituzionale, cioè l’esigenza di dare al nostro paese un riassetto in senso federalista. Nulla a che vedere con il discorso secessionista della lega. Era un discorso di riassetto istituzionale fondato sulla revisione dell’ordinamento regionale: perché è comico un assetto regionale in cui vi sia una regione grande come un quartiere di Milano. E’ un qualcosa di semplicemente comico, non è un qualcosa di serio, così come ridicolo è un equilibrio regionale in base al quale, il famoso discorso del residuo fiscale, siano in Italia due, tre le regioni che finanziano il tutto.
Non può durare a lungo. E’ fisico che non possa durare a lungo senza creare scompensi, squilibri e contraddizioni sociali alla lunga ingovernabili è evidente, chiaro, lampante: tu vai a creare i presupposti di una divisione strutturale del paese che si riflette anche da anni nelle dinamiche elettorali.
Tutti temi essenziali di riforme di struttura che non vennero compresi nelle loro ragioni che vennero rinviati sine die. E la crisi si è andata via via aggravando. Non c’è stata nessuna seconda repubblica: la seconda repubblica non è stata che l’agonia della prima. Anche come ceto politico nulla è più prima repubblica di Berlusconi. E’ l’agonia della prima repubblica e questa agonia ad un certo momento ha condotto a morte o in pericolo di morte, ad un pericolo di disfacimento del tessuto repubblicano democratico del paese.
E’ una soglia sulla quale noi siamo. Una soglia molto delicata. Il cammino che ha portato a questa soglia viene da lì, da dove ho indicato brevemente. E’ una storia da fare. Se non si è consapevoli di nulla allora tutto si traduce in cronaca spicciola.

LA SUBALTERNITA’ DELLA SINISTRA.
Come hanno cercato le varie sinistre di correggere o di capire le ragioni di questa crisi?
Sostanzialmente in termini subalterni. Negli anni ’90, tangentopoli etc., con un po’ di giustizialismo che in politica non significa nulla e non porta da nessuna parte.
Succubi nei confronti della magistratura, che poteva avere tutte le ragioni del mondo, ma la politica non deve essere succube nei confronti di nessuno.
Ma soprattutto subalterni al modello liberista che allora sembrava trionfante. Questo è stato il peccato fondamentale: la rincorsa al modello liberista. Non il il tentativo di riformare il modello socialdemocratico, di fare un discorso di democrazia progressiva, di mettere mano alla costituzione in modo progressivo valorizzandone i valori … no! Adattamenti al modello che in quel periodo storico anni ‘90 sembrava trionfare: tipico l’ossequio a Blair, il modello Blair, su tutti i piani: dal punto di vista delle politiche economiche, delle politiche estere, su tutti i piani. ll modello liberista entra in crisi nel 2007 2008: lo abbandonano tutti. Tutti più o meno, capiscono che quel modello non può salvare nemmeno il capitalismo e allora nuova sub cultura che avanza per tentare sempre di coprire quel vuoto che non si vuole affrontare, quel vuoto culturale, strategico che non si vuol affrontare.
Il modello leaderistico, populistico-leaderistico: sì, non abbiamo idee non abbiamo strategie o ripetiamo quelle datate (vecchi modelli socialdemocratici) rigettiamo ogni discorso che voglia imporre una revisione
autocritica vera alle ragioni dei propri fallimenti, delle proprie inefficienze.
Non si disturbi chi guida: se noi abbiamo il leader tutto alle fine viene risolto.
Anche qui subcultura! Cultura subalterna ad altre che nulla avevano a che fare con la storia e il destino della sinistra.
L’idea che nel partito, e nelle vecchie socialdemocrazie ci fosse l’uomo solo al potere è un’idea che può venire in mente solo ad un berluschino … non è così.
Quei partiti erano delle grandi organizzazioni con grandi direzioni all’interno delle quali vi erano delle competenze diverse, una divisione del lavoro (chi era più competente di quello chi dell’altro) e il leader era a sintesi di tutto questo.
(Il leader) era la sintesi di apparati organizzativi radicati sul territorio. Senza quel radicamento non sarebbero mai esistiti i grandi partiti di massa né socialdemocratici, né popolari né il PCI né la DC. (All’interno la direzione era formata… erano mostri policefali –ride-) Non erano l’uomo solo al potere, non erano il leader, il leader era la sintesi di tutto questo. Se fosse mancato tutto questo Berlinguer non sarebbe mai esistito, Moro non sarebbe mai esistito.
Invece nel vuoto strategico (ecco) il leader animato da culture subalterne o da vecchi armamentari che fin dall’inizio degli anni ’80 avevano dimostrato la loro precarietà. Nessun aggiornamento sulla composizione sociale del paese, nessuna proposta che avesse un senso di nuova organizzazione di quelle masse di lavoratori o di gente che cercava il lavoro ma inevitabilmente in forme diverse da quelle della grande fase propria della social democrazia che è quella della industrializzazione di massa.
Nulla vietava che si cercasse di vedere e organizzare le nuove forme di lavoro, le forme infinite di autosfruttamento che oggi dominano. Le nuove forme, diciamolo pure la parola, di proletariato che oggi sono quelle dominanti soprattutto all’interno dei giovani.
Nessuno vietava uno sforzo per rappresentare sindacalmente e politicamente tutto ciò. Non occorreva una lettura diversa della realtà. Occorreva una organizzazione diversa dei partiti che nel frattempo erano stati demonizzati da tutti.
Uno degli aspetti di maggior subcultura o di subcultura della cosiddetta sinistra è stata l’adesione incondizionata al discorso: “ma del partito che ce ne facciamo, …burocrazia … il movimento è bello”: bergsonismo da strapazzo! “Bello il flusso vitale” … E via barzellettando in questo modo!
Mentre si disfacevano tutti i rapporti sociali e il sindacato quando andava bene rappresentava i pensionati, come mi risulta avvenga oggi, dove il sindacato più numeroso all’interno della CGIL siano proprio i pensionati.

CHE FARE?
Che fare? Perché questa è la ragione della crisi. Questa è la ragione della vittoria altrui, la perdita di consenso la perdita di rappresentatività sociale da parte di quelle forze che componevano la sinistra.
La sinistra per fare la sinistra doveva indicare la strada che ho detto: erano di sinistra quei contenuti? Era di sinistra la riforma costituzionale? Era di sinistra affrontare il problema dei giovani, del lavoro e dell’occupazione nei nuovi termini in cui la realtà imponeva? Non lo so. Erano strategie, erano obiettivi erano contenuti concreti, naturalmente diciamo di una sinistra di quest’epoca non di una sinistra di cinquanta anni fa dove il problema era la rappresentanza sindacale nei grandi nuclei industriali, la classe operaia, il rapporto conflittuale con il capitale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SENZA DIAGNOSI NIENTE PROGNOSI.
Che fare? Prima di tutto se non c’è una diagnosi difficile che ci sia una prognosi se non viene fuori da qualche parte un discorso storico culturale chiaro sul trentennio che abbiamo alle spalle è difficile che si possa pensare di uscire dalla crisi. Non c’è nessuna medicina che possa fare a meno di una seria diagnosi.
Allora prima di tutto credo che si debba porre a quelli che si dichiarano di sinistra questo problema sia in un congresso o non in un congresso: “bene amici vogliamo discutere di questo? Vogliamo discutere del nostro fallimento? Del fallimento di un ceto dirigente? “
Del fallimento di un ceto dirigente complesso, intellettuali compresi. Perché nulla è più inutile di magari vedere come vanno le cose, magari di saperle e non riuscire a realizzare niente: sei colpevole esattamente come quello che non lo sapeva che ignorava tutto, identico. Tutti coloro che hanno appartenuto a questo ultimo trentennio sono rei nessuno escluso perché non cambia nulla in politica sapere le cose e non riuscire a realizzarle e non saperle e non realizzarle. Perché ciò che conta in politica è la realizzazione questo è ciò che distingue la filosofia dalla politica. Quindi prima di tutto partire da questo, perché già dalla diagnosi indichi quelle che dovrebbero essere le cose da fare.

LA RIFORMA DELL’ UNIONE EUROPEA.
Innanzitutto, perché è poi lì la sede delle vere decisioni, un forte discorso che dovrebbe coinvolgere tutte le sinistre europee. Il prossimo anno le elezioni europee tutti coloro che si richiamano ad una storia di sinistra dovrebbero presentarsi io credo al limite uniti, anzitutto con un discorso tecnicamente preciso su come intendono riformare l’unione europea.
Senza questo nulla può conseguire perché nel bene o nel male tutto si deciderà lì. Perché se l’unione europea riprenderà a funzionare, e riprenderà a funzionare soltanto attraverso radicali riforme di tipo istituzionale, potremo averne ogni paese grandi benefici, se naufraga naufragheremo tutti.
Questo la sinistra lo dice, ma non dice nulla di preciso e comune in tutte le sinistre europee su come riformare, su cosa si intenda per “democratizzare l’ Europa. Nessuno l’ha capito e questo dovrebbe essere il primo punto di un documento di rifondazione della sinistra europea e della sinistra italiana.
Di conseguenza quali politiche sociali e fiscali all’interno del nostro paese possono essere realizzate (di conseguenza) alle riforme in Europa? Perché è chiaro che se l’Europa continua a funzionare per le politiche sociali e fiscali come adesso, con al suo interno addirittura degli “stati canaglia” tipo Lussemburgo, tipo Olanda, che riforme fiscali vuoi fare qui, quando domani quelli che investono qui possono trasferirsi colà?
Quindi senza una emergenza di politiche sociali e fiscali a livello europeo hai voglia di realizzare qualcosa come una seria lotta all’evasione in un paese come il nostro dove per altro l’evasione fiscale fa quasi parte del costume. Quindi secondo punto come si intende oggi realizzare quella riforma del Welfare, dello stato sociale la cui esigenza si era imposta quaranta anni fa?
Oggi è imprescindibile. Altrimenti si troverà sempre una destra che vince le elezioni dicendo “riduciamo le tasse” e tu la inseguirai affannosamente cercando di rendere quanto più progressivo questo disegno di riduzione delle tasse.
Sull’Europa, ovviamente, conseguenza immediata l’immigrazione perché senza una riforma politico istituzionale europea avrai sempre le destre interne che avranno sempre la carta formidabile da giocare
sull’immigrazione. O c’è una politica europea o se no hai voglia di dare dello xenofobo… Hai voglia perché faranno sempre leva su un sentimento di disagio di paura: oh che brutto hai paura? Hanno paura e allora? Li mandi dallo psicologo per farli guarire dalla loro paura?
E soltanto a livello europeo può essere una politica tale che si definiscano finalmente questi benedetti confini dell’Europa. Se fallisce questa mettiamocela via, come se falliscono le riforme del Welfare delle politiche sociali e fiscali, mettiamocela via, perché bastano queste due armi formidabili, nei decenni che ci aspettano, imposizione fiscale e problema dell’immigrazione, non dico a far vincere sempre necessariamente, ma a porre in pole position le posizioni di destra all’interno dei paesi europei.

LA RIORGANIZZAZIONE DI UN PARTITO.
Questioni via via più interne: riorganizzazione di un partito decente. Che significa competenze al suo interno, che significa gruppo dirigente e non leader carismatico. I leader carismatici nel mondo contemporaneo nell’attualità ci sono ma durano tre anni quattro anni. I problemi che dovremo affrontare dureranno due, tre generazioni. L’Europa ha davanti a sé o un periodo di rifondazione e ripresa o un periodo di decadenza o di marginalizzazione crescente è evidente a tutti. Quindi dobbiamo darci una struttura organizzativa di una qualche durata non dipendente dalle sorti del leader che è simpatico oggi e che domani non lo è più e si perdono le elezioni anche per quello.
Una struttura che sia radicata sul territorio e che porti avanti una linea federalistica che è l’unica adatta a questo paese, ma la porti avanti sul serio toccando quei punti delicatissimi: il riassetto regionale, quel residuo fiscale che è diventato intollerabile. E’ possibile tutto questo?
Si valuterà nei prossini mesi, anzi nelle prossime settimane, se emergeranno programmi firmati da gruppi dirigenti che su questi argomenti dicano anche tecnicamente la loro, anche, come io amo dire, “dando i numeri”, per cui si capisca dove sono le risorse, dove possono essere ottenute e quale idea di partito hanno e di organizzazione di una nuova sinistra e su questo si confrontano dando vita ad un movimento partito organizzato in correnti oppure se vi è una totale incompatibilità a diverse forze politiche (che non è un peccato perché in questo paese, come amo dire io, il divorzio è una delle riforme che è passata), in quanto nulla è peggio della convivenza coatta quella finisce con il femminicidio o il maschicidio. Ecco molto semplice.

L’AVVERSARIO POLITICO SI ATTACCA POLITICAMENTE.
Ci sarà la volontà per questo nuovo inizio oppure si continuerà a blaterare di qualche strategia di trapassato welfare oppure ci si limiterà a dire appunto che gli altri sono xenofobi, razzisti, incivili, barbari etc.. con grande gioia dei medesimi perché più si predica moralisticamente invano più gli si portano voti.
L’avversario politico lo si attacca politicamente non in termini moralistici.
Politicamente. Nella patria di Machiavelli questo dovrebbe essere noto ma ahimè credo che non siamo più la patria di Machiavelli e nemmeno quella del suo allievo e ammiratore Giacomo Leopardi.
Bene io ho finito e quindi sentiamo voi. Domande, questioni, osservazioni e suggerimenti che anche a me piacerebbe dare consigli ascoltati cosa che non mi è mai riuscito in vita.

Trascrizione dell’incontro “QUALI POSSIBILITA’ PER LA SINISTRA”, INTERVENTO DI MASSIMO CACCIARI, 4 GIUGNO 2018, MILANO, SANTERIA SOCIAL CLUB, ORGANIZZAZIONE FONTI CREDIBILI.

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