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Dall'archivio:

Marco Pantani sta al Mortirolo come Federer sta a Church Road . Il tributo di Teo Parini

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

 

Quando in prossimità di Mazzo di Valtellina si svolta a destra lasciando al proprio destino la strada dello Stelvio – è impossibile sbagliare, c’è un’insegna in legno e una quiete irreale tutto intorno – nemmeno il tempo per stringere le scarpette come si conviene prima di un’asperità orografica che il nastro d’asfalto si imbizzarisce sotto alle pedivelle, fuori controllo. Si chiama Mortirolo, si legge inferno in Terra. 


Comincia il bosco, cominciano almeno diecimila metri di una salita terribile, collosa, con un fondo ruvido come carta vetrata e la pendenza di una scorciatoia per il cielo, se solo esistesse. Un supplizio di rettifili che sembrano non finire mai e tornanti che neanche provano a dare l’illusione di una tregua. 


Intrisi di acido lattico e voglia di mandare tutti al diavolo, succede che, con alle spalle quasi un’ora di rapporti i più agili possibili, il panorama cambi radicalmente, d’incanto, con castagni e conifere a perdita d’occhio che lasciano spazio alle distese di prati d’alta quota. Luce, finalmente, niente più ombra, un toccasana per il cuore messo a dura prova da battiti via via più accelerati che sfuggono come sabbia per le dita.

Poco prima però, e non a caso, sul lato destro della carreggiata una stele monopolizza il contesto. Su un muro rivestito in pietra a protezione di un pendio tipicamente alpino fa capolino la sagoma che riconosceresti tra mille altre, quella di un uomo piccolo così raccolto sulla sua bicicletta, con le mani basse sul manubrio come a voler divorare la strada. La postura di uno scatto, insomma, quelli che fanno sobbalzare davanti alla tivù. Beffardo, anche, perché con la coda dell’occhio l’omino in fuga si accerta di essere rimasto solo al comando. Lui, ovviamente, è Marco Pantani e il fatto che nel mondo ci sia una scultura che lo rappresenti sta a significare che qualcosa della sua vita, e insieme della nostra, non sia andata per il verso giusto. Lo sappiamo tutti. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marco Pantani al fianco del nostro Andrea Noè

 


Proprio qui, Marco si presentò all’universo del pedale, era il 1994. Una folgorazione, la tesi di laurea alla Sorbona del ciclismo, roba da predestinati. 5 giugno, Giro d’italia, gruppo compatto. A metà salita un Pantani non ancora completamente calvo rompe gli indugi; mette in fila uno, due, tre accelerazioni e la sua non è una scalata ma una danza di un’abbacinante bellezza. Classica nella gestualità, d’antan nel coraggio, punk nello sparpaglio che genera. Non si era mai vista prima di allora una leggerezza simile capace di produrre tanta potenza in una sola pedalata, con buona pace di Newton e le sue leggi che, a quanto pare, dicono molto ma non proprio tutto.

Indurain, l’immenso Indurain di quei giorni, finisce presto al gancio, spaesato, mentre Marco, un puntino colorato sempre più lontano, vola. Si rivedranno solo al traguardo. Lungo quei chilometri tormentati nasceva così il più grande scalatore di ogni epoca, di questo o altri eventuali pianeti sconosciuti.

Pantani ha coniugato l’eleganza di Nureyev alla forza di uno di quei robot giapponesi della sua infanzia. Una specie già estinta sul nascere, la sua, il Pantadattilo, come lo definì simpaticamente Gianni Mura. Pantani, pertanto, sta al Mortirolo come Federer sta ai prati di Church Road. Ecco spiegato il perché di una stele, issata proprio lì, che trasforma – per gli avventori – un esercizio da incubo e sudore in un momento di magia sportiva spazio-temporale senza eguali.

Che dire. Marco non c’è più, per la precisione da quindici anni a questa parte. E potrà sembrare la solita banalità che si rispolvera nelle occasioni peggiori, ma nulla è stato più lo stesso in un ciclismo stereotipato e ingrigito che ha sostituito a istinto e improvvisazione la regia del computer.
Marco, chiacchiere a parte, fu ucciso come un cane a San Valentino – e un giorno, ci piace pensarlo, la giustizia gli renderà giustizia – in un albergo che di nome fa Le Rose, quando si dice unicità anche nel maledetto commiato. Marco, che con le sue imprese sportive ha spinto il ciclismo in una dimensione planetaria rendendo fruibile uno sport meraviglioso, ha finito, come spesso accade nella società del consumo, per essere lasciato solo, prima spremuto e poi gettato, in balìa di eventi più grandi di lui. Ragazzo di una trentina d’anni con tanti traguardi da tagliare. L’epilogo, non serve ricordarlo, fu il peggiore possibile. 


Marco, che diceva di andare forte in salita per abbreviare la sua agonia, fu una personalità dalla spiccata intelligenza a braccetto con la fragilità dell’anima. Aveva pregi e difetti, un po’ come tutti, ha fatto scelte sbagliate, forse, ma l’unica colpa fu quella di arrivare in cima alle salite della vita prima degli altri. Troppo, a quanto pare.


Morale. In questo mondo disumano che fa schifo, l’aver condiviso i nostri anni migliori con Pantani è stato uno sfacciato colpo di fortuna. E allora pedala Marco, getta via la bandana e scalcia forte sui pedali. Perché se smetti tu smettiamo anche noi.

Teo Parini

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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