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Dall'archivio:

‘Mangiare è un atto agricolo’, di Wendell Berry

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Ho letto in questi giorni alcuni saggi di Wendell Berry raccolti nel volume, Mangiare è un atto agricolo, edito da Lindau. Saggista, romanziere, poeta, agricoltore, ecologista, Berry, nato nel 1934, vive in una piccola fattoria del Kentucky da lui e dalla sua famiglia amorevolmente curata. I saggi sono nel contempo un’appassionata difesa delle piccole fattorie, del tipo di economia che esse sottintendono fondata sula gestione responsabile della terra, e una critica serrata e implacabile dell’industrialismo, la cui vita economica è “priva di affezione per i luoghi in cui risiede e di rispetto nei confronti di ciò che utilizza”, con i relativi danni che esso provoca a livello sociale, ecologico, esistenziale. Il punto di partenza delle sue analisi è che mangiare è un atto agricolo, il momento conclusivo di un ciclo naturale che comincia con la semina.

E’ questo nesso tra agricoltura e cibo che l’industria alimentare accortamente ci occulta rendendoci consumatori passivi. La maggior parte delle persone non ha coscienza del rapporto esistente tra la terra e l’atto del mangiare: “comprano ciò che desiderano, o che sono state convinte a desiderare nei limiti di ciò che hanno a disposizione… e di solito ignorano alcune domande critiche riguardanti la qualità e il costo di ciò che comprano. Quant’è fresco quell’alimento? Fino a che punto è puro e privo di sostanze chimiche nocive? Quanti chilometri ha percorso dal luogo di produzione, e quanto incide il trasporto sul suo prezzo finale? quanto incidono i costi dei processi di lavorazione, confezionamento, e pubblicità? Quando è stato prodotto, lavorato o precotto quell’alimento?”

Per l’industria alimentare “la preoccupazione principale non è la qualità e la salute, ma la quantità e il prezzo.” L’ossessione per la quantità e le dimensioni per aumentare i ricavi e ridurre i costi “conduce a un declino della diversità e della qualità, e aumenta per forza di cose la dipendenza da farmaci e sostanze chimiche…La trappola è l’ideale dell’industrialismo: una città circondata da mura, che lasciano passare le merci ma bloccano le coscienze.” Come sfuggire a questa trappola? La risposta di Berry è di ristabilire la nostra consapevolezza nei confronti di ciò che significa mangiare, di renderci consumatori critici e non più passivi (producendo, ad esempio,  per quanto possibile, il nostro cibo o almeno preparandolo da noi, informandoci della sua  origine e acquistando a chilometro zero dando così fiato alle piccole fattorie oggi schiacciate dai colossi dell’agribusiness, ecc.), perché “il modo in cui mangiamo determina in misura rilevante l’utilizzo che facciamo del mondo.” “Mangiare con il più ampio piacere possibile – soggiunge Berry – è forse la realizzazione più profonda del nostro legame con il mondo.” In questo piacere, che non si riduce a quello del semplice buongustaio, “sperimentiamo e celebriamo il nostro debito e la nostra gratitudine, perché la nostra vita nasce dal mistero, da creature che non abbiamo creato e forze che non sappiamo comprendere.” Non è un caso se nella più bella delle nostre preghiere si dice “dacci oggi il nostro pane quotidiano” sottintendendo evidentemente quel rapporto diretto tra il cibo che possiamo produrre, il modo con cui lo produciamo e il nostro consumarlo. In uno dei saggi Berry nota acutamente il cambiamento del linguaggio dovuto alla rivoluzione industriale e al predominio dell’immagine e della metafora della macchina: “Fino a che la rivoluzione industriale non ha preso piede nella mente della stragrande maggioranza dei cittadini dei cosiddetti Paesi sviluppati, le immagini dominanti avevano un’origine organica, riguardavano gli esseri viventi ed erano di tipo biologico, pastorale, agricolo o familiare. Dio veniva descritto come un pastore e i fedeli come le pecore del suo gregge.

Il Paese natale di un individuo si chiamava madrepatria. Di certe persone si diceva che avevano la forza di un leone, la grazia di un cervo, l’astuzia di una volpe… oggi sentiamo parlare senza battere ciglio di uomini e donne come unità, elementi uniformi e intercambiabili come i pezzi di una macchina. Sentiamo dire, e lo consideriamo perfettamente accettabile, che la mente è un computer… Per il nostro Paese non nutriamo più sentimenti familiari e intimi in quanto madrepatria, ma lo valutiamo sulla base della sua produttività di materie prime e risorse naturali – in altre parole, della sua capacità di continuare a far girare la macchina.” Questa constatazione si lega a un’altra e cioè che “siccome il numero di coloro che oggi coltivano la terra è estremamente ridotto, la maggior parte della popolazione non sa niente di agricoltura.” Di più, ignora che “la natura è il valore ultimo del mondo reale e di quello economico.” Queste considerazioni in linea di fatto suggeriscono, en passant, che oggi una vera riforma della scuola (poiché non c’è dubbio che il 97% degli studenti è privo di qualsiasi nozione su come coltivare la terra e produrre il cibo) dovrebbe partire dal ritorno alla terra, dall’acquisizione di buone pratiche agricole, andando a scuola-lavoro dai contadini.

 

 

 

 

Altro che la “buona scuola” di Renzi, che appare tributaria ad una concezione meccanicistica ed economicistica del lavoro e del futuro dei giovani. Se lavoriamo con le macchine percepiremo, infatti, il mondo come una macchina, mentre lavorando con gli esseri viventi ci apparirà come una cosa viva, da curare e di cui essere grati. “La piccola fattoria – scrive Berry – è uno degli ultimi luoghi, ogni giorno sempre più rari, in cui donne e uomini (e ragazze e ragazzi) possono avvertire quel richiamo a farsi artisti, imparare a porre amore nell’opera delle proprie mani. E’ uno degli ultimi luoghi in cui colui che fa è responsabile per intero del proprio lavoro, dall’inizio alla fine. Ciò rappresenta certamente un valore spirituale, ma non per questo privo di praticità e di significato economico.” L’alternativa a questo reinventarsi la cura della terra è quel che succede oggi dove l’industrializzazione ha prodotto una svalutazione generale del lavoro.

Con una vena di sottile ed ironica angoscia Berry nota come “le persone vivono nell’attesa della conclusione della giornata lavorativa, nell’attesa dei week end, delle ferie e della pensione. E il fatto è che quest’ambizione sembra oggi essere condivisa da tutte le classi sociali, dai dirigenti chiusi nei loro uffici in cima ai grattacieli giù fino alla catena di montaggio. L’individuo lavora non perché il lavoro è necessario, degno o utile per un fine desiderabile, oppure perché ama il suo lavoro, ma soltanto per poterlo lasciare, in una condizione che un’epoca più sana di mente della nostra avrebbe considerato simile a una condanna infernale.”  Un’economia sana, insomma, è solo quella in grado di misurare sé stessa attraverso il benessere della natura e degli individui, senza perdere i legami col bene comune e con i valori superiori della vita.

Di Sandro Marano, da www.barbadillo.it

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