― pubblicità ―

Dall'archivio:

Magenta: ‘Vincenziana, la lezione di questi anni’, parla la coop Intrecci

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

Nella periodica news letter della cooperativa Intrecci è comparsa una riflessione sull’esperienza della Vincenziana che vi proponiamo

MAGENTA – Sin dai primi giorni di apertura del centro di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo di Magenta, nel luglio 2014, la cooperativa Intrecci ha dovuto gestire, oltre che le cento persone accolte, i riflettori puntati dalla stampa locale sulle polemiche politiche alimentate strumentalmente da alcune forze politiche.Sin dai primi giorni di apertura del centro di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo di Magenta, nel luglio 2014, la cooperativa Intrecci ha dovuto gestire, oltre che le cento persone accolte, i riflettori puntati dalla stampa locale sulle polemiche politiche alimentate strumentalmente da alcune forze politiche.

In questi anni abbiamo avuto, come è giusto che sia, diverse visite ispettive da parte della Prefettura e dell’ATS, nelle normali attività di controllo per garantire un livello qualitativo sufficiente del servizio che svolgiamo. A queste si sono aggiunte le visite di sindaci, di assessori comunali, del consiglio regionale, di parlamentari europei e di delegazioni da altri Paesi. Più volte siamo stati convocati in consiglio comunale o nelle commissioni consigliari competenti per illustrare il lavoro svolto quotidianamente e i dati richiesti, assecondando le curiosità, gli stimoli e talvolta le provocazioni di chi ci ha interrogato. Abbiamo sempre dimostrato in tutte queste occasioni professionalità, competenza e dedizione al nostro lavoro. Abbiamo accolto rispettando le normative, impiegando il personale e gli standard qualitativi richiesti dai bandi, mantenendo sempre un rapporto profondamente umano, di prossimità e di solidarietà con i nostri ospiti, anche nei confronti di chi ha sfogato contro di noi le proprie frustrazioni, le paure e la rabbia accumulate nei Paesi di provenienza, in Libia, nei viaggi della speranza e infine in Italia. Abbiamo mantenuto la consapevolezza che su di noi, proprio perché vicini, prossimi e umani potevano e dovevano permettersi di esprimere i propri stati d’animo.

Abbiamo raccolto testimonianze di vita vissuta con violenze per noi inimmaginabili. Storie di soprusi, di torture, di violenze inenarrabili. Storie di guerra, corpi violati, stuprati e segnati per sempre da amputazioni, cicatrici indelebili, fame, mesi di detenzione in carceri fatiscenti alla mercé dei propri aguzzini, stenti che prima avevamo letto solo nei libri di storia o nei racconti dei sopravvissuti dall’olocausto nazista. E per ogni piccolo segno nel corpo di queste persone abbiamo trovato squarci nel loro animo, traumi psicologici enormi, profonda sofferenza interiore.

Abbiamo cercato di aiutare queste persone con tutte le nostre forze, spesso aprendo le braccia, ascoltando e condividendo con loro il peso schiacciante di un fardello disumano da portare con se per tutta la vita. Ma poi il nostro compito è stato quello di contribuire a trovare la forza di risollevare il capo, di guardare all’altro con fiducia, di alzare di nuovo lo sguardo per vedere il futuro, di ricominciare una vita. Curarsi, imparare l’italiano, imparare la nostra cultura, fare corsi professionalizzanti, imparare un lavoro, costruire mattone dopo mattone in pochi mesi quello che normalmente i nostri giovani possono costruire in decenni.

Abbiamo anche imparato tanto. Abbiamo conosciuto culture molto diverse tra loro, abbiamo fatto convivere pacificamente religioni, usanze e modi di vivere, abbiamo costruito una comunità coesa, che ha affrontato le “cose della vita”, le telefonate ai genitori per le feste, i lutti di cari lontani, la nostalgia per la mancanza di un figlio o di una moglie, la malattia, i ricoveri in ospedale, i litigi, le amicizie nuove e persino la morte di un fratello, improvvisa, inspiegabile, inaccettabile. Insomma una vera comunità, una enorme famiglia, che dall’esterno può apparire un ghetto, ma che vissuta dall’interno ha cento nomi, cento sguardi, cento teste e cento cuori.

Oggi questa storia va a concludersi. La comunità chiude. I nostri ragazzi se ne vanno. I nostri colleghi che ci hanno lavorato si sposteranno su altri servizi. Cala il sipario, e come sempre avviene, in quel posto dove tanto si è faticato prevale il sentimento della nostalgia. Tiriamo un sospiro di sollievo perché l’impegno è stato totalizzante, asfissiante, un’esperienza dura, molto forte. Ma ci mancherà quella comunità con cento colori, con le sue stranezze, con la sua forza la sua energia e la sua voglia di vivere nonostante tutto e tutti.

E mentre ci salutiamo, mentre incrociamo gli sguardi per l’ultima volta dandoci fiducia a vicenda, da uomini, da esseri umani con la stessa dignità, qualcuno ci punta ancora il dito contro, per lanciare l’ultima sfida, per dire che non siamo stati capaci di gestire questo servizio, che abbiamo fatto un flop, che i ragazzi non hanno imparato l’italiano, che sono dei mantenuti senza diritti. Quella voce di sottofondo che ci ha accompagnato per questi anni, la sentiamo ancora, ma noi continuiamo ad ignorarla.

Ancora una volta abbiamo qualcosa di molto più importante da fare. Ci dobbiamo salutare bene. Ci ridiamo sopra, operatori, volontari e ospiti, e ci domandiamo ma che ne sanno loro delle nostre vite?

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

■ Prima Pagina di Oggi