― pubblicità ―

Dall'archivio:

Magenta, perché la lettera di don Giuseppe non ci è piaciuta

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

MAGENTA – Meglio dirlo subito per dissipare ogni dubbio. La lettera pastorale diffusa ieri dal prevosto magentino don Giuseppe Marinoni, in occasione della patronale di san Martino vescovo, non ci è affatto piaciuta.

Non tanto nelle ottime premesse, né nel richiamo a san Paolo VI. Non ci è piaciuta nella parte finale, dove  (volendo fare una reductio che tutti capiranno come prendere, trattandosi dell’intervento di una autorità ecclesiastica e non civile) si fa una difesa spassionata dell’accoglienza e delle politiche migratorie attuate in questi anni dai Governi, specie tra il 2013 e il 2018.

Sono molte e variegate le ragioni del nostro dissenso, perfettamente compendiate nelle parole di due pensatori diversissimi tra loro (uno è stato Principe della Chiesa, l’altro un laico non credente), purtroppo entrambi ormai morti: parliamo del cardinale Giacomo Biffi (che prima di reggere la Diocesi di Bologna fu anche parroco a Legnano) e del politologo Giovanni Sartori.

Prima di offrirvi le loro considerazioni, che cozzano vistosamente con quelle contenute nella lettera di ieri (pubblicata integralmente da Ticino Notizie), ribadiamo, come peraltro fatto spesse volte negli ultimi mesi, la massima stima per l’opera evangelica di don Giuseppe Marinoni e la sua persona, di indubbio spessore e riferimento nella Magenta di oggi.

COSA DISSE IL CARDINALE BIFFI

Circa 25 anni fa il cardinale Biffi, come tutti gli uomini dotati di visione inconsueta, scrisse in tema di Chiesa, modernità e immigrazione parole profetiche. Rileggiamone alcune.

Deve essere ben chiaro che non è di per sé compito della Chiesa come tale risolvere ogni problema sociale che la storia di volta in volta ci presenta. Le nostre comunità e i nostri fedeli non devono perciò nutrire complessi di colpa a causa delle emergenze imperiose che essi con loro forze non riescono ad affrontare. Sarebbe un implicito, ma comunque grave e intollerabile “integralismo” il credere che le aggregazioni ecclesiali possano essere responsabilizzate di tutto. Compito nostro inderogabile è invece l’annuncio del Vangelo e l’osservanza del comando dell’amore.
39. Prima di tutto l’annuncio del Vangelo. Dovere statutario della Chiesa Cattolica, e in essa di ogni battezzato, è di far conoscere a tutti esplicitamente Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell’universo, unico Salvatore dell’umanità intera.
Tale missione può essere efficacemente coadiuvata, ma non può essere in alcun modo surrogata da qualsivoglia attività assistenziale. 

Nel variegato panorama dell’immigrazione, le comunità cristiane non possono non valutare attentamente i singoli e i diversi gruppi, in modo da assumere poi realisticamente gli atteggiamenti più pertinenti e opportuni.
Agli immigrati cattolici – quale che sia la loro lingua e il colore della loro pelle – bisogna far sentire nella maniera più efficace che all’interno della Chiesa non ci sono “stranieri”: essi a pieno titolo entrano a far parte della nostra famiglia di credenti e vanno accolti con schietto spirito di fraternità. Quando sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro tipica tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa attenzione da parte di tutti.
Ai cristiani delle antiche Chiese orientali, che non sono ancora nella piena comunione con la sede di Pietro, esprimeremo simpatia e rispetto. E, in conformità agli accordi generali e secondo l’opportunità, potremo favorirli anche dell’uso di qualche nostra chiesa per le celebrazioni.
Gli appartenenti alle religioni non cristiane vanno amati e, quanto è possibile, aiutati nelle loro necessità. Non va però in nessun modo disatteso quanto è detto nella Nota Cei del 1993: “Le comunità cristiane, per evitare inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese, cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività parrocchiali”.

Sotto questo profilo, il caso dei musulmani va trattato con una particolare attenzione. Essi hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino ad ammettere e praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se di solito a proclamarla e farla valere aspettano prudentemente di essere diventati preponderanti.
Mentre spetta a noi evangelizzare, qui è lo Stato – ogni moderno Stato occidentale – a dover far bene i suoi conti.

Da ultimo, sarà bene che nessuno ignori o dimentichi che il cattolicesimo – che non è più la “religione ufficiale dello Stato” – rimane nondimeno la “religione storica” della nazione italiana, oltre che la fonte precipua della sua identità e l’ispirazione determinante delle nostre più autentiche grandezze.
Perciò è del tutto incongruo assimilarlo alle altre forme religiose o culturali, alle quali dovrà sì essere assicurata piena libertà di esistere e di operare, senza però che questo comporti o provochi un livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti valori della nostra civiltà.
Va anche detto che è una singolare concezione della democrazia il far coincidere il rispetto delle minoranze con il non rispetto delle maggioranze, così che si arriva di fatto all’eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale in una comunità umana. Si attua una “intolleranza sostanziale”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COSA DISSE GIOVANNI SARTORI

Nel marzo scorso, sul Tempo, il saggista conservatore Marcello Veneziani, una delle menti più raffinate della destra culturale, riprende un vecchio saggio del politologo progressista Giovanni Sartori. E scrive così. ” C’è un saggio di Sartori che forse insegna più degli altri anche a distanza di anni. È il saggio sull’immigrazione – Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Ha un taglio destrorso, da gran conservatore, realista ma non ideologico.

La polemica strisciante che percorre il testo è col multiculturalismo di estrazione marxista, il “fasullo terzomondismo nel quale confluiscono sinistre e populismo cattolico”. Non conosceva ancora i predicatori istituzionali e vaticani dell’accoglienza e la retorica, la prassi e la pessima gestione dei flussi migratori divenuti sempre più massicci. Al contrario, l’atteggiamento di Sartori sull’immigrazione è improntato a una severa diffidenza e un parco uso di aperture.  Se non fosse stato Sartori a scriverle, usato come vessillo contro il berlusconismo e le destre al governo, non so come sarebbero state accolte riflessioni e affermazioni di questo tipo.

Sartori nega che l’Italia sia o possa diventare un paese razzista. Nega che estendere il diritto di voto possa prevenire atteggiamenti razzisti e nega che ci sia discriminazione fondata sul colore della pelle o sulla povertà: gli asiatici, nota Sartori, sono entrati poverissimi ma non sono affatto disprezzati. E i neri, aggiungerei, sono visti con minor diffidenza dei pur bianchi albanesi o romeni; a dimostrazione che non è questione di razze o di pelle ma di maggiore inclinazione alla criminalità, confermata dai dati numerici e non da teorie razziste.

Resistere a un’invasione di immigrati non è razzismo, diceva Sartori. Ma “ammesso e non concesso che questo sia razzismo, allora la colpa di questo razzismo è di chi lo ha creato”. Ovvero di chi ha generato le condizioni per una difficile convivenza. Il razzismo è per Sartori “un’accusa sbrigativa, superficiale, che generalizza troppo, e che rischia di essere altamente controproducente. Chi viene denunziato come razzista senza esserlo, s’infuria, e magari finisce per diventarlo davvero”.  Sartori contestava il progetto multiculturale che, a suo dire, può solo approdare a un “sistema di tribù”, a separazioni culturali disintegranti, non integranti. Come di fatto sta accadendo, soprattutto in quei paesi come la Francia in cui è fallito il modello integrazionista; ma non funziona bene nemmeno nelle società multietniche del tipo inglese o americano. 

Ma la vera “scoperta” in età senile di Vanni Sartori è la comunità. Il politologo nota che quando la sovrastruttura (la nazione, lo Stato sovrano, l’impero) si disgrega, torniamo inevitabilmente all’infrastruttura primordiale, la comunità, intesa come organismo vivente. Sartori sposa l’idea di comunità nell’accezione più classica e più forte, quella di Tonnies che identifica con la “comunità concreta”. La comunità, secondo Sartori si coagula e si rafforza intorno al comune sentire e può ben riferirsi anche a comunità larghe. 

Per Sartori, poi, la causa dell’immigrazione è la sovrappopolazione e una responsabilità speciale è della “Chiesa cattolica che si ostina irresponsabilmente a promuovere le nascite”. La sovrappopolazione, ha ragione Sartori, è un’emergenza mondiale ma l’immigrazione è innescata più dalla globalizzazione che è poi il girone di ritorno della colonizzazione e del villaggio globale. Quanto al boom demografico, le colpe della Chiesa sono modeste se si considera che più dei cinque sesti del pianeta non sono cattolici o cristiani e i paesi a più alto tasso di natalità sono islamici, induisti, tribali o d’altre religioni. Il messaggio cristiano, crescete e moltiplicatevi, vale per l’Europa cristiana dove le bare superano le culle. Ma resta inascoltato.

Con Sartori ebbi alcuni dibattiti e qualche diverbio, ad esempio su Berlusconi e sul pensiero di san Tommaso. Ma era un piacere litigare con la sua intelligenza vivace.

Ecco. Noi, a fronte della tentazione di alcuni di spostare dal piano religioso a quello sociale l’azione della Chiesa, condividiamo ogni singolo rigo di quanto scritto poc’anzi. Sempre a beneficio della chiarezza.

Fabrizio Provera

 

 

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

■ Prima Pagina di Oggi