MAGENTA – «La cascina Calderara dista dal centro abitato più di 2 chilometri ed è raggiungibile solo tramite una strada sterrata senza passaggi o vie pedonali, direttamente collegata alla ex statale 11. Si tratta, dunque, di un contesto isolato che obbligherebbe le persone ospitate a una permanenza forzata nelle vicinanze della cascina. Non solo: parte della cascina è di proprietà privata e abitata da due nuclei familiari, otto persone in tutto, con un ingresso comune. Il rischio di tensioni è troppo alto perché io mi possa dire favorevole a una simile eventualità. I magentini si sono sempre rivelati accoglienti, vorrei che qualsiasi decisione venisse presa con rispetto nei confronti della cittadinanza, dei residenti della cascina e anche dei migranti in arrivo».
Aveva ragione da vendere l’ex sindaco Marco Invernizzi, che nel 2016 espresse così tutti i suoi dubbi sull’arrivo di una trentina (tra donne e bambini) di migranti alla cascina Calderara, spersa nel verde a due passi dall’azienda agricola Porta.
Erano donne e bambini, provenienti dall’Africa. Ospitati in una porzione di fabbricato agricolo neppure allacciato alla rete fognaria..
Sono passati due anni e mezzo da quei caldi giorni di luglio, e come avvenuto quasi ovunque dei richiedenti asilo alla Calderara non si è saputo nulla. Nessuna relazione, nessun comunicato, nessun passaggio in Consiglio comunale.
Ce lo siamo chiesti martedì, quando a Magenta è cominciata a circolare la voce della chiusura della Vincenziana.
Perché il dubbio che ci assale è semplice: che fine hanno fatto gli ospiti della Calderara? Quanti sono? Cosa hanno fatto?
A quanto risulta, sentendo chi da quelle parti ci abita, sarebbero rimaste non più di 7 persone. Significa che almeno 23 se ne sono andate. Dove? Non si sa. Accolte o respinte? Non lo sa neppure il mago di Arcella.
E mentre sta per essere scritta la parola fine sui quattro anni e mezzo di storia della Vincenziana, dei due e mezzo vissuti alla cascina Calderara filtra solo un assordante silenzio.
Cari signori e signore che avete difeso- magari con sincera generosità- questo modello di accoglienza che definire fallace è generoso, ma non vi siete davvero e ancora accorti di nulla? No? Beh, allora fatevi una domanda e contestualmente cercate una risposta.
Ma quanto meno siate intellettualmente onesti. Quante casi come la cascina Calderara ci sono stati, in questi anni? E questo sarebbe il modo di rispondere ad una ‘esigenza umanitaria’? A noi, riprendendo la geniale aggettivazione di Marcello D’Orta in ‘Io speriamo che me la cavo’, divenuto una gustosissima pellicola per la regia di Lina Wertmuller, tutta la vicenda della Calderara è parsa ‘sgaruppata’ dagli inizi. Come il cartello che ne indicava l’esatta posizione.
Fab. Pro.