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Magenta e digressioni. Di Emanuele Torreggiani

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Sta suscitando un certo scalpore l’annunciata chiusura del negozio Spada, sito in piazza Vittorio Veneto. E nello scalpore tutta la consueta polemica della città che sta morendo. La città commerciale, poiché quella industriale è ormai ben poca cosa in raffronto al trentennio del dopoguerra. In decenni ancora presenti lì, in quella corte ristrutturata, c’era una macelleria con sala da macello, mi pare abbattessero il capo al giovedì. E lungo l’asse di via Mazzini rivedo un negozio di ortolano, uno di alimentari, un prestinaio, il Bognetti: dove la mattina sul presto un mio compagno di classe delle elementari, guadagnatasi la quinta aveva piantato lì, per forza o per passione, che sbucava basculando la bicicletta da lavoro carica di due ceste di vimini ricolme di sacchetti da consegnare casa per casa, cantava a squarciagola, con la sua bella voce tenorile la hit, il successo, del momento, mentre scrivo mi echeggia la pulsazione di Cuore Matto di Little Tony; quando m’incontrava gridava ciao torre quattr’occ, (il quattrocchi a titolo di merito per i miopi identificati come studiosi, leggere fa male alla vista, è risaputo) mica che me ne avessi a male anzi, capitava che vedendomi correre mi caricasse sulla sella fin alle Baracca e lui in piedi che spingeva sui pedali cantando in quel buon profumo di pane, ed ora che sei morto ormai dal doppio degli anni di quanti ne hai vissuti ti saluto ragazzo mio, ché tu sei rimasto un ragazzo ed io un vecchio; indietro di qualche passo un negozio di teleria e stoffe l’Orlandi che vendeva al taglio, non so dire esattamente quanti sarti vi fossero in attività, una mezza dozzina, cui aggiungersi le sartine che lavoravano in casa; perché andava così, quando una ragazza non sapeva bene cosa dire del mondo, mica che faceva la giornalista, un mestiere gli andava a far insegnare la mamma, e iniziava coll’apprendere che i grembiuli s’abbottonano pel davanti e mai all’indietro, ed in questa abbottonata Gesù Cristo lo sa come ci sta dentro tutto. E recalcitrando sulla via Milano l’impennata della Laminati Plastici e poi il ristorante del Carletto, l’anta d’ingresso con la mezza tenda candida e nella bella stagione tre tavolini sul marciapiede con i portacenere siglati Cinzano, lì all’aria buona della benzina rossa e delle bisarche che transitavano al passo diurno e notturno e il Marco Maerna, che poi sarà vicesindaco per un decennio, se non accorreva a casa subito finita la scuola, due calci nel sedere non glieli toglieva nessuno, in subordine una sciavatà in diagonale. E ancora all’indietro il ricovero dell’Atm, oggi abbandonato da un ventennio e non c’è verso poiché, oggi, la giustificazione regna sovrana. Ma sia. Quante attività di quelle sommariamente tracciate hanno passato il crinale degli ultimi trent’anni? Nessuna. In piazza Vittorio Veneto, alle tre bronzee terga: animale, umana e spirituale, si vide, nei decenni, la crisalide del primo negozio plurimerceologico: la Gamma e poi Upim, infine chiusura ora banca e assicurazione. Che poi dire dei centri commerciali è dire tanta roba del regno austroungarico, il nostro impero, infatti dinanzi l’odierna RSA Don Cuni, già ospedale Fornaroli, in quella impennata di edifici contigui messi ciascuno a discrezione proprietaria, in un uscio parato da cruenta polvere, insisteva un negozietto con licenza di privativa ceralaccato imperial regio, e lì, su quel mezzo bancone di marmo orlato dai rossi e dalle tazze miste, la Centa, una donna gentilissima e dolente, e mai noi la si vide giovane nè vecchia, una Madonna del Seicento come se ne vedono nelle chiese ora deserte, la Centa aveva licenza di vendere dal carbone alla carne, dall’alloggio per uomini a rimessa per animali, dal giornale allo stracchino.

E non c’è più che un uscio inchiodato, e noi passando si sa che lì ella visse tutti i suoi anni, dormendo come seppe sul sofà nel retro. La città va così. Si trasforma, trafuga. Alle cinque e trenta per il cambio turno delle sei ella disponeva una tradotta di grigioverde per gli operai che parcheggiata al pedale la bici sul cordolo del marciapiede si facevano il carico pulendosi le labbra col dorso del mezzo guanto e la nazionale in agguato di fiamma. Fiamma della Saffa, che sarebbe una storia italiana. Ma non c’è più né operaio né Saffa. Credo che il termine operaio sia stato bandito dai cazzari che rivedono il linguaggio. Comunque quel mondo lì non c’è più. Nessuno allora, né maschio né femmina, che qui occorre specificare che si confonde il genere con la specie, tutti laureati alla wiki, nessuno sarebbe uscito fuori di casa in tuta, e neppure in casa. C’era il cappotto bello e quello di tutti i giorni. Quando quello bello andava frusto lo si impiccava all’attaccapanni, che nell’armadio si appendeva l’astrakan o il castorino, in caso di eredità anche il visone. Oggi un cappotto dura una stagione. L’effimero della moda autunno inverno. Poi si butta, si regala, si caccia lì alle tarme che le bustine alla lavanda costano una cifra ma le tarme non mangiano la plastica ed i suoi derivati spacciati per stoffa pregiata, gli insetti hanno un’identità. L’alta moda a Magenta non si è mai vista, mai, e non è certo quella robetta esibita all’incanto ieri, oggi e domani. Va così. I negozi si aprono, si chiudono, hanno il loro momento, poi passa. Chi avrebbe immaginato, trent’anni fa, di vedere il gran florilegio di ristoranti tavole calde forni a legna a microonde a freddo quali ora? E di tutti questi ristoranti quali sono per davvero un ristorante? Nessuno. Ma cambiano i parametri. Me lo dice un amico che il mestiere lo sa fare, e per davvero, erede di due generazioni. Torre, vale di più oggi un’oliva ripiena del branzino, non parlare del dentice o la coda di rospo, il gnocco fritto asfalta il Langhirano, quindi o ti adegui o muori. Tutto qui. In fondo a via Roma, a due passi dalla Basilica (lo scrivo in maiuscolo in spregio al politicamente corretto laico climatologo homus fallus che lamenta il suono delle campane) dedicata a San Martino, il negozio di scarpe Balzarotti. Marchio David. Io indosso solo scarpe alte, polacchine d’estate scarponcini d’inverno. David vendeva i suoi prodotti, le faceva lui, ed i suoi lavoranti, le scarpe. Un prodotto popolare: qualità da far stra-vergognare, stra-vergognare, i marchi oggi più blasonati. Faceva scarpe per operai e borghesi, professionisti e imprenditori. Commerciava il suo prodotto: l’artigiano. Morto lui morto tutto. Il resto è compra vendi. L’inautentico. Amen

Emanuele Torreggiani

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