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Ma che cavolo combini, Nick?? Il commiato del Principe Kyrgios dagli Us Open- di Teo Parini

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Nello sport non si inventa nulla, figuriamoci nel tennis. Una disciplina che, per come si articola, nella migliore delle ipotesi pretende un allenatore mentale e nella peggiore l’assistenza psichiatrica.

Tra i mille casini che un tennista si trova a dover gestire nell’arco della carriera c’è quella che il maestro Tommasi definisce prova del nove. In soldoni, la necessità di replicare a breve distanza una prestazione maiuscola al cospetto di un avversario potenzialmente inferiore. Tra quelli che la superano e quelli che la patiscono, la linea rossa fa, o non fa, il palmares.
Non è una dote innata. La si costruisce, tassello dopo tassello, dal primo giorno in cui si imbraccia una racchetta. È l’abitudine a vincere le partite che devono essere vinte. Psicologicamente le più complicate, almeno se non ti chiami Djokovic e il cervello ragiona in byte.
Edificare questo aspetto a ventisette anni, dopo che te ne sei allegramente sbattuto per ventisei, è vicenda complessa. È come pensare di ingurgitare, tutti insieme, dieci chili di pasta per compensare un anno di digiuno. E così Kyrgios, dopo l’apparizione celestiale di ieri l’altro da sfavorito contro il numero uno al mondo, è inciampato nel succitato trappolone di tommasiana memoria, fornendo una prestazione raccapricciante contro un Khachanov peraltro al di sopra del suo standard non sempre godibile.
Della partita, purtroppo per chi ha sacrificato una notte di sonno, c’è poco di entusiasmante da raccontare perché al russo è stato sufficiente risultare solido negli schemi a lui più congeniali per assicurarsi con merito il passaggio del turno. Costante con la battuta e paziente nell’attendere di passare all’incasso nei passaggi a vuoto di Kyrgios, Karen ha plasticamente dimostrato un principio fondamentale del tennis moderno per il quale se l’estro fa vedere i biglietti è la regolarità a fare sollevare i trofei. Va così.
Finisce qua l’estate che non ti aspetti di Kyrgios, caleidoscopico ragazzo che si è concesso, chissà per quale motivo, una parentesi di vita da atleta (quasi) vero. Dopo quattro mesi pregni di vittorie, e un paio di brucianti defaillance, Nick dice di voler tornare a casa sua, in Australia, lontano dai playground ma vicino agli affetti. Lo capiamo benissimo.
La morale è che se anche se per un istante, tra Londra e New York, abbiamo sperato che uno Slam potesse anche vincerlo – sempre per il poco che vale l’almanacco al cospetto della bellezza – non bisogna dimenticare il servizio che il meno affidabile degli inaffidabili ha reso al tennis, innalzando qua e là il livello del gioco su traiettorie che non pensavamo nemmeno di conoscere, nonostante decenni di dedizione allo studio della disciplina.
Allora buone vacanze, Nick.
Dovessi avere voglia, ci vediamo a Melbourne. Al bancone di un pub con una birra in mano o nella bolgia della Rod Laver Arena. Scegli tu.
Teo Parini

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