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L’ultimo figlio ricorda la figura e l’opera del senatore Mario Martinelli (1906-2001)

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Il ‘flusso positivo’ dell’energia, che ha accompagnato la realizzazione de ‘Una grande Famiglia LA BELLARIA’ (2018), ci ha permesso di contattare gli eredi delle famiglie fondatrici dell’attuale struttura di Appiano Gentile: Scalini, Cetti Serbelloni, Martinelli, Pagani.
In particolare il dottor Pietro Martinelli ci ha inviato un prezioso resoconto storico della vita del padre Mario, senatore, più volte ministro nel secondo dopoguerra, comasco innanzitutto e referente della politica democristiana per decenni nel suo territorio. Un politico che diede un contributo significativo alla realizzazione di quella che oggi è una Residenza per Anziani (Fondazione ‘Bellaria’ onlus) di Appiano Gentile. Giovanni di Capua ne ‘Mario Martinelli nel secolo delle contraddizioni’ (Rubbettino, 2004) delinea la storia politica del Nostro, che fu eletto per la prima volta alla Costituente e sempre rieletto nel collegio di Cantù dalla I alla VII legislatura. Ma leggiamo come ha delineato la figura del padre l’ultimo figlio, Pietro, che tratteggia, alla fine, anche gli anni che lo videro recluso a San Vittore, con il rischio di essere fucilato, da un momento all’altro, come ‘detenuto politico’:

“Mario Martinelli, nato il 12 maggio 1906, ha avuto nove figli, dei quali tre già tornati alla casa del Padre, due da molti anni, l’ultimo, mia sorella Maria Grazia, nel 2007 (…) Io sono l’ultimo dei nove, e dei genitori ricordo solo grandi qualità, continuo affetto ed attenzione nei nostri confronti, poche parole ed eccezionali esempi: condivido l’affermazione secondo la quale un esempio insegna più di mille parole. Vera anche la considerazione, riferita da esperti ai genitori: “I vostri figli non faranno quello che voi dite loro di fare, ma quello che vi vedono fare”.
Papà rientrava da Roma, in famiglia, il venerdì sera, se andava bene per cena, altrimenti dopo e il sabato usciva prima che mi svegliassi, per andare in Provincia, per sentire le esigenze della gente, per parlare con sindaci, amministratori, segretari comunali, parroci e qualunque altro glielo chiedesse, con un contatto continuo con le persone. Poi, a Roma, si faceva interprete delle locali esigenze, sia collettive (necessità di scuole, strade, enti di pubblica utilità – e questa fondazione è un mirabile esempio del bene che si può realizzare per la collettività-), sia individuali (nelle mie prime memorie ricordo i problemi di vedove e di invalidi, per pensioni di guerra ancora ferme al ministero). Rientrava a casa, dal suo giro della Provincia, sabato notte e analogamente passava la domenica. Lunedì all’alba ripartiva per Roma.
L’esigenza di uno stretto rapporto con la popolazione del suo territorio (non dico il suo elettorato, perché si sforzava di trovare il tempo per chiunque glielo chiedesse) era sentita da mio padre quale imprescindibile presupposto per un serio svolgimento del suo mandato elettorale, che lui ha sempre inteso come mandato di esclusivo servizio per gli altri.
Qualche volta, la domenica, quando si recava sull’alto lago (ricordo Gera Lario), portava con sé gli ultimi due bimbi; eravamo io e mio fratello Abbondio, maggiore di cinque anni e ci affidava a qualche disponibile pescatore per una piacevolissima escursione in barca, sempre istruttiva (sulla pesca, sui pesci, sui luoghi). A rifocillarci pensavano le sorelle, che avevano una trattoria.
Naturalmente c’erano anche le grandi feste di Pasqua e Natale, ove si stava insieme un po’ di più: ricordo le sere nelle quali dopo il Rosario (sì, allora si diceva il Rosario e si chiamava il Santo Rosario) cantavamo tutti insieme allegramente, cori di montagna, la ‘Valsugana’, la ‘Montanara’, il ‘Testamento del Capitano’ ed altri, con le nostre voci, vocine e vocette.
Infine, vi erano le vacanze estive, che passavamo sempre tutti insieme: nei primi anni a Rimini e più avanti in piccole (allora) località di montagna (Steinach, Villabassa, Fai della Paganella, ecc.).
Non molto tempo fa uno stimato ed amico medico neuropsichiatra infantile mi ha chiesto se avessi risentito della limitata presenza paterna in famiglia. Ho risposto, con piena convinzione, che questo problema non era mai esistito: le ore insieme erano effettivamente poche, ma intense ed appaganti: nessuno di noi figli ha mai avuto il dubbio di non essere stato fortemente e continuativamente voluto ed amato. Nostra madre ci ha sempre premurosamente spiegato che il papà svolgeva un importante lavoro, che si occupava dei problemi degli altri, che si adoperava per vedere di risolverli, si impegnava per farlo al meglio e che, per farlo bene, aveva bisogno di molto tempo. Questo fatto, anche se, ad esempio, non ci accompagnava mai a scuola, non ci creava vuoti: ci inorgogliva. Cosi come ci davano sicurezza la grande fede ed il forte legame affettivo, sempre ben visibile nei nostri genitori. Un ombrello di affetto, fiducia, sicurezza e protezione, che ci aiutava a crescere serenamente, pur nella nostra effervescenza.
E, nella storia della famiglia, ogni tanto arrivava un frutto, un bimbo, come una ciliegina sulla torta del loro affetto coniugale.
Io penso di essere stato un ultimo tangibile voluto frutto di questo perdurante loro grande amore. Mi spiego.
La notte tra il 17 ed il 18 agosto del 1944, nell’abitazione familiare di Como, via Dante n. 60, mio padre, facente parte del Comitato di Liberazione, fu arrestato e ristretto a S. Donnino (intervento della Polizia politica, intorno alla mezzanotte, agli ordini del noto questore Domenico Saletta). Ricordo un episodio contestuale: quella stessa notte la Polizia politica mise le mani su una stazione radio clandestina situata tra Appiano Gentile e Veniano, affidata all’ing. Luigi Carissimi Priori, che era in contatto col prof. Adolfo Vacchi, entrambi arrestati e portati a S. Donnino. Ricordo l’episodio per due ragioni: la prima è che è un fatto di questi luoghi di rilevanza storica. La seconda è perché il prof. Vacchi fu prelevato da S. Donnino circa 2 settimane dopo, verso le 21 del 3 settembre e fece una tragica fine.
‘Prelievi’ di questo tipo, purtroppo, erano frequenti. Apro una parentesi: in carcere i detenuti comuni avevano rispetto per quelli politici e per quanto potevano davano loro suggerimenti anche pratici: inoltre, con ‘radio-carcere’, prontamente li informavano di chi entrava e di chi usciva. Quando un detenuto politico usciva dal carcere in quelli rimasti c’era grande apprensione. Raramente era per essere liberato, spesso era per essere interrogato dall’Autorità Giudiziaria; ancor più frequentemente era per interrogatori di polizia (veri e propri abusi), che avvenivano in tutti gli orari e, a volte, terminavano tragicamente. Come al termine dell’interrogatorio, di circa 36 ore, del prof. Adolfo Vacchi, che la mattina del 5 settembre fu portato presso il cimitero di Camerlata e fu ivi fucilato.
Mio padre era difeso dall’avv. Edoardo Orsenigo (e, dopo il trasferimento a S. Vittore, in unione all’avv. Giacomo Delitala): lo seppi solo decenni più tardi, leggendo uno scritto di mio padre, quando l’avv. Orsenigo, che per altre ragioni avevo avuto occasione di conoscere ed in un certo modo frequentare (frequentavo la casa della sua famiglia), era già mancato. Quando seppi di questa difesa feci domande al nipote dell’avv. Orsenigo, il dr. Vittorio Nessi (mio compagno al Liceo Volta e, poi, mio compagno di studi all’università Statale di Milano e, ancora, nella preparazione per il concorso per magistratura e per l’esame di stato per l’avvocatura, poi mio validissimo collega) ed appresi circostanze interessanti, che mi sono, in parte, premurato di far mettere per scritto, per conservarne documentazione. Ne ricordo due: l’avv. Edoardo Orsenigo era stato colpito dalla figura di mia madre che, tra l’altro, si presentava al suo studio con una fila di bambini, a scaletta (alla data dell’arresto il maggiore aveva 13 anni e 8 mesi, l’ultimo e 3 anni e 5 mesi) e dalla forza d’animo di mio padre: anche in un ancor più difficile momento.
Un giorno fu detto all’avv. Orsenigo che era stato deciso che il suo assistito Mario Martinelli l’indomani sarebbe stato fucilato e che doveva dargliene comunicazione. Ottenuto il colloquio, avuta la notizia dal difensore, mio padre era rimasto calmo e sereno; in sostanza aveva risposto: “Se hanno deciso così chiedo solo di poter avere un incontro con un sacerdote, per il conforto di una confessione”. La fucilazione non avvenne (… ipotesi sul perché … Situazione che mi rammenta quella del soldato Giuseppe Ungaretti, luglio 1918, Bosco di Courton, fronte occidentale: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”).
Passano 4 mesi. Il 19 dicembre 1944, con preavviso di mezzora, in una gelida mattina il papà fu trasferito, incatenato insieme con altri detenuti, sul cassone aperto di un camion, a S. Vittore, ove arrivarono tutti semiassiderati, per fortuna senza che i principi di congelamento ebbero conseguenze permanenti per nessuno. Il trasferimento era motivato dalla necessità di doversi presentare al processo avanti al Tribunale Speciale di Milano, con l’imputazione ex artt. 270 e 272 c.p., per essersi adoperato, nella sua qualità di organizzatore del C.L.N., per sovvertire violentemente i poteri costituiti dello Stato e per aver svolto propaganda per il sovvertimento violento dei medesimi poteri.
Passano altri 4 mesi e passa anche la metà dell’aprile 1945. E’ ormai di conoscenza comune che le truppe anglo-americane hanno già liberato la maggior parte del territorio italiano ed è evidente a tutti che il regime di Mussolini sta crollando. I detenuti politici sono divenuti un problema per chi li tiene ristretti. Iniziano loro insperate scarcerazioni.
Pochi giorni prima del 25 aprile 1945 anche mio padre è scarcerato e torna a casa.
Da mia madre ho poi appreso, qualche anno prima che mancasse (29.2.1988), la di lei gioia immensa nel ritrovarlo vivo e libero ed il grande dolore nel vederne le condizioni fisiche (nessuna visita ai familiari era stata consentita durante tutti i circa 8 mesi di detenzione), anche se nella mente in nulla era cambiato.
Oltre tutto mio padre si portava dal carcere due effetti collaterali, anche se di poco conto rispetto alle sofferenze ed ai rischi patiti. Il primo era conseguenza della grave scarsità, assenza di qualità e monotonia del cibo, problema che esisteva per tutti: fuori vi erano il razionamento, le tessere dell’annona, le ristrettezze; è immaginabile che cibo fosse riservato ai detenuti.
L’avv. Orsenigo, per non allarmare mia madre, con grande capacità e sensibilità qualche mese prima si era limitato a prospettarle che non sarebbe stato male integrare il vitto carcerario con dei pacchi di viveri. Mia madre si era subito preoccupata: “Ma non gli danno da mangiare?” “Ma no, signora, ha da mangiare, ma non è un gran che e con qualche buon cibo lo si distrarrebbe e poi lui è generoso, lo offre anche agli altri.”
Ma vi erano due problemi da superare.
Il primo era la generale ristrettezza ed il fatto che in casa vi era anche una serie di piccole ma voraci bocche da sfamare. Ma questo era il meno, perché dall’arresto era scattata una spontanea gara di generosità e quasi ogni giorno vi era chi portava qualcosa. E qualche autonoma risorsa di casa c’era.
Il problema maggiore era come far arrivare a S. Vittore un pacco di viveri, che in quei momenti era merce assai ricercata e che, se scoperto, sarebbe stato oggetto di desideri di molti. E mia madre, che evidentemente non poteva attirare l’attenzione portandosi dietro tutti i bimbi come quando andava dall’avv. Orsenigo, scelse di darne compito non al maggiore, ma alla seconda, forse pensando che il ‘carico’ di una bambina potesse passare più inosservato. Per questo, quando ve ne era la possibilità, mia sorella Maria Grazia, all’epoca da poco dodicenne, prendeva il treno delle Nord, scendeva a Milano Cadorna e poi prendeva il tram sino a S. Vittore e recapitava un pacco di alimenti.
Quale allegato di un libro di mio padre vi è una ricevuta timbrata e controfirmata dalla Direzione delle Carceri Giudiziarie della Repubblica Sociale Italiana, di consegna di: 1 salame crudo, 1 pezzo di grana, 4 pacchetti di biscotti, una scatola di latte Pucci, 3 tavolette di cioccolato lunghe, 6 tavolette di cioccolato corte, 16 mele e 9 grissini. Malgrado questi aiuti, sempre felicemente giunti in porto, era sopraggiunto il primo effetto collaterale: la pellagra.
Il secondo effetto derivava dal sovraffollamento e dalla sostanziale mancanza di pulizia delle carceri: mio padre aveva preso anche la scabbia.
Ripulito, direi disinfestato ed iniziate le necessarie cure, dopo due giorni era già in attività col C.L.N. ed operativo (primo pomeriggio del 25 aprile: notizia dell’arrivo a Como di Mussolini con una colonna armata: riunione ristretta del C.N.L. in casa di Antonio Lombardini: se si verifica un conflitto a fuoco è necessario avere armi; viene deciso di andare a vedere com’era la situazione sopra la collinetta di Montorfano, al Golf di Villa d’Este, ove era acquartierato il battaglione Vega, subentrato ivi alla X Flottiglia MAS.
Partono ‘con l’incoscienza di quei momenti’ Mario Martinelli in veste di rappresentante del C.L.N., il Maggiore Cosimo De Angelis, Angelo Gini ed Antonio Vitali, postosi alla guida di un camion messo a disposizione da Antonio Lombardini. Nessuno era armato. Viene deciso durante il viaggio il modo operativo dell’azione. In estrema sintesi: mostrando decisione e piglio autoritario ed approfittando della situazione di smarrimento, smobilitazione e sconforto dei presenti, ottengono di farsi consegnare tutte le armi utili ivi esistenti, che caricano sul camion e riescono a portare a Como).
Meglio ristabilitosi, certo di aver debellato la scabbia con esclusione di qualsiasi possibilità di contagio e resosi più presentabile per la sua amatissima moglie, dopo poco più di un anno dalla scarcerazione sono nato io”.

FOTO Il senatore-Ministro Mario martinelli (1906-2001)

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