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L’ultimo caduto- Il 4 novembre secondo Emanuele Torreggiani

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“Augusto Piersanti è nato a Norcia. Pochi minuti prima dell’armistizio, fissato per le ore 15, cade sul campo di Pocenia il 4 novembre del 1918. Aveva 21 anni. Tenente del 27° Cavalleggeri Aquila. È stato l’ultimo soldato italiano a morire nella Prima Guerra Mondiale. Augusto Piersanti andava alla carica con la spada sguainata contro un nido di mitragliatrici austriache. Pocenia è un comune italiano nella pianura della provincia di Udine. Gli è stata appuntata sulla giubba la Medaglia d’Argento al Valore Militare”.

Questa nota virgolettata la ricopio dal mio quaderno delle elementari, anno 1967. Avevo nove anni. La nostra Maestra (tutti noi dobbiamo così tanto ad uno solo) aveva assegnato la ricerca sulla guerra alla classe Quarta. Consegnammo trentatré fogli di protocollo, scritti con pennino in corsivo e illustrati a pastello, il 3 novembre, che quell’anno cadeva di venerdì. Ciascuno di noi, tutti maschi, aveva un compito definito: gli stati in guerra, la geografia, il primo caduto, le divise, le armi, i reggimenti, i dirigibili, gli aeroplani, le navi, i martiri, la trincea, le vette dolomitiche, i sentieri ferrati, le cime fortificate, i muli che salivano dentro la neve alta, la Croce Rossa, il Piave, l’Isonzo, il Tagliamento, il volo su Vienna, Francesco Baracca, il proclama della Vittoria, le poesie, i racconti, le canzoni, le musiche, San Martino del Carso di Giuseppe Ungaretti; poi, se uno di noi avesse avuto un nonno che aveva fatto la guerra avrebbe potuto portare a scuola un cimelio. E ancora, la nostra Maestra, seguendo l’indicazione di Erodoto che aveva descritto ogni fonte testimoniale, aveva assegnato la ricerca sugli inglesi, i francesi, i tedeschi, gli austriaci, i russi, l’impero ottomano.

Ci spendemmo una settimana di lavoro, poi ciascuno di noi lesse la sua parte in classe nell’intero mese di novembre. Io portai la maschera antigas di mio nonno, alpino; chi una pallottola montata a portachiavi; chi una scheggia di granata avvolta in carta paglia; chi una croce di bronzo con nastro adagiata in una scatoletta di cartone; chi una coccarda, chi un accendino ricavato dal bossolo d’ottone di una mitraglia; chi una stella alpina dentro una minuscola cornice argentata. Tutti andammo a sfiorare quegli oggetti e indossammo la maschera la cui struttura in gomma andava sfaldandosi nell’anamorfica michelangiolesca del Giudizio Universale. L’immagine di un cavaliere al galoppo l’avevo trovata sul Conoscere; l’enciclopedia della Fabbri che alloggiava, nella sua livrea rosso pompeiano, in ogni famiglia; tratteggiata con la carta velina, infine ricalcata sul foglio protocollo le cui bordature le colorai a greca tricolore. Uno dei nostri, che aveva la nonna sarta, consegnò la ricerca trapuntata di un cordino tricolore intrecciato con filo d’oro. Quel 4 novembre era un sabato e il pomeriggio verso alle sedici ci trovammo tutti in Basilica ai lati dell’altare. Ciascuno di noi aveva una bandierina tricolore di cotonina umida per l’acquerugiola. Le prime file centrali erano occupate dai reduci. Chi indossava il cappello da alpino, chi da bersagliere, chi la bustina dei fanti; ai nostri occhi erano vecchissimi. Finita la messa andammo, in processione, al Campo della Rimembranza. Camminavamo piano perché uno di quei vecchi andava faticosamente con le stampelle. Lì, dopo che furono letti ad alta voce tutti i nomi dei caduti, il Parroco disse “dell’inutile strage”, richiamando così Papa Benedetto Decimoquinto e chiedendo “Misericordia per i vivi e per i morti”. Faceva già buio e il viale era illuminato da ceri accesi al piede dei cipressi che stillavano acqua. Le poche auto della strada adiacente andavano a passo d’uomo. Mio nonno no, non era voluto venire, preferendo passare il pomeriggio al circolo a giocare le carte. Quando gli avevo chiesto della guerra da alpino mi aveva guardato negli occhi, i suoi celesti. Mi aveva osservato con l’intensità cui si fissa un punto laggiù, oltre l’orizzonte, nell’irraggiungibile infinito. Se ne stava seduto davanti la bocca del camino. Raccolse un rametto rovente e si riaccese il toscano. “Una brutta bestia”, mi rispose scuotendo il capo. Mia nonna mi disse poi che era “molto asciutto” sull’argomento ed anche sul resto, “ogni tanto, quando gli piglia, va al cimitero alla cappella dove sono sepolti i suoi amici e sono anche incisi i nomi di due dispersi e sta lì, se c’è del muschio sulla pietra lo carezza con il dito”. Il suo cappello da sergente maggiore degli alpini con la piuma nera è andato mangiato dalle tarme e gli scarponi consumati nelle vigne. Quindici anni dopo, dalle parti di Cambridge, in una limpida giornata estiva, attraccai il fondo piatto del barchino in prossimità di un guado del Cam. Lungo la riva un ristoro e poco oltre una chiesetta di arenaria. “Vieni, ti faccio leggere una poesia famosissima, forse la più famosa del Novecento inglese”, scossi il capo al nome di Rupert Brooke: “giusto sentito dire”. Innestati nella pietra i caratteri di bronzo recitavano Il Soldato: ‘Se dovessi morire, pensa solo così di me, c’è un pezzetto, di terra straniera, che è per sempre Inghilterra’. D’intorno le lettere, milioni di occhi di ragazzi che il muschio orlava ed al tatto restituiva l’intensità di una carezza.

Emanuele Torreggiani

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