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Luciano Prada ‘in primavera’, di Emanuele Torreggiani

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Primavera dell’età e del tempo, scrive il Gran Lombardo, con quella sua frenesia che imparenta lui, il Carlo Emilio Gadda al nostro Luciano Prada di Corbetta che, pur nei decenni intercorsi dalla sua angosciosissima morte, talvolta, oggi ad esempio, mi riappare nel suo camminare diritto, in mole taurina, dentro il loden verde col piegone che sbanda in un girar di venti astrali, che gli grido, Luciano, già, di per me consapevole che egli non possa essere il Lui, ma gli grido Lucianone e gli allungo così la mia mano sull’omero e quegli, voltandosi, un uomo a nostra immagine e somiglianza del Divino Creatore mi guarda, il volto in metamorfica sorpresa e timore.

Incontrandoci negli occhi, in quella lucente mestizia che gli anni profondi distillano la miniera di questa nostra vita, scusandomi lo saluto e quegli mi ringrazia adducendo, nel sottile sottovoce del tono uso al solitario, che son giorni, i suoi, di silenzio nelle stanze use al suo quotidiano. E mi ringrazia per quel contatto, la mano sulla spalla, che nei suoi ottant’anni a posdomani tracimare, gli mettono paura, non più del morire che gli parrebbe, testualmente lui stesso, un gran rifugio, ma nel vivere. Già. Ogni sua parola gli esce con misura di crogiolo, egli stenta a riconoscersi la voce prigioniera del gran silenzio consueto. E m’accenna il suo sguardo al pacco di libri che sottobraccio accompagnano il mio caracollo tardo mattutino. Il caso Kravcenko, di Nina Berberova, scrittrice sovrana di quell’universo distopico che fu l’Unione Sovietica in cui lei colse la splendida forma in bocciolo di una rivoluzione che presto, prima ancora della fioritura, cadde declinando il capo ad angelo immoto in lutto che nel cimitero di Staglieno veglia i defunti di famiglie estinte.

La rivedo, la Nina, sfangare la sua giornata in una camera ammobiliata del Quartiere latino, Parigi, in quegli anni di cupio dissolvi dell’occupazione nazista, mentre ricama merletti e sottovesti ghiottonerie per quel demi monde che ovunque oltrepassa, indenne, il crinale del proprio tempo. Un’arte, la Nina pietroburghese e poliglotta, appresa alla scuola d’infanzia delle suore della Carità che le baionette perforarono in quei ventri eburnei. Poi, a terra stabilita, finì, riconosciuta del proprio talento letterarmemorialistico, i suoi giorni ottuagenari a Princeton, stato del New Jersey e laggiù sepolta. Quando, in anni lontani e vivi, di lei leggevo Il Corsivo è mio, mi si parò dinnanzi il Luciano Prada in epifania solipsistica nel suo arrocco di tono e gesto. Sedevo, s’era ai primi di giugno, all’angolo pomeridiano del caffè Blue Harmony, impagabile anglofonia, che squadrava la via IV Giugno impavesata per la storica ricostruzione della battaglia ed il Prada, per l’appunto, mi investiva, con l’arguzia popolare sua rimaneggiata in un lessico superbo, d’improperi, per quella ‘fanfaronata di cui tu’, e mi puntò non il dito bensì lo sguardo suo limpido e ridente, ‘hai sottoscritto l’orribile messa in scena degna di un carnevale da mezza stagione’. Ne sorridemmo, come si conviene tra uomini, e chiudendo il libro egli ne scorse l’autrice. “Il corsivo è mio”, di Nina Berberova. E posandomi la mano sulla spalla, un gesto che ho riproposto in apertura della presente sciocchezzuola, ‘questo libro vale più di tutti quelli già scritti e ancora di quanti se ne potranno’. Egli, il Luciano Prada, gran lettore e musico di lingua popolare, sorrideva nel profondo del suo occhio a specchio del suo ben più profondo cuore. E oggi, complice un loden verde cupo, il colore aurorale della foresta d’abeti, lo chiamai, consapevole che da ogni morte corporale non si ritorna, purtuttavia, quell’uomo ottuagenario sconosciuto al quale narrai l’aneddoto, mi ringrazia con voce, alla fine del nostro incontro, solida e si ripromette di leggere la Nina Berberova. Un’ellissi dunque, stamane, nel tempo che va e ritorna dove i morti non sono mai definitivi. Primavera dell’età e del tempo.

Emanuele Torreggiani

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