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L’oltremare. Di Emanuele Torreggiani

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Gemette due volte quella notte, affondando pudica la testa nel cuscino, e non era dolore. Mi chiamò col nome di suo marito sfracellato in una falesia. Un velo di pura brina le fasciava la schiena solida e forte al pari d’un uomo. D’altronde, lei si faceva la legna per ardere poi nella sua locanda, la sera. Aveva un viso etrusco, sapete quei capelli neri ricci lunghi, lo zigomo alto, il naso deciso e le labbra carnose, rosa, i denti candidi. Il seno accennato a declivio, il vello profondo e le cosce altere, allenate al cammino montano. D’in sulla battuta dell’uscio lo squillo argentino, lei stava regolando il fuoco nella bocca del camino dove andava a cuocere. La gonna di tela blu, dilavata dalle stese al sole, tesa sull’accosciata e la camiciola in cotone batista aderiva al busto scolpito. Volse il capo, aveva gli occhi neri. Mi squadrò. All’impronta vidi che non le piacevo. Per niente. Indossavo un completo di lino blu e una camicia bianca anagrammata. Il capello era corto ma non così tanto da essere inquadrato quale militare. La salutai e dalla mia voce compresi che ero brillo essendomi attardato, nell’ultima ora, con un paio di Negroni e un Amerikano. Prosaicamente ero ubriaco. La sbronza della sera è la più bella della giornata. Il tramonto si fa lungo e carezzevole ed una buona cena la acquieta. Traguardai la porta con la scritta toilette e mentre aprivo lei gridò, ristetti. Il battente mi arrivava alla fronte. Lei, in piedi, mi arrivava a metà del petto, mi indicava la trave. Ma è mai possibile, a quest’ora, lei diceva mentre le traguardavo il pelo dell’ascella e respiravo l’afrore di sudore e lavanda. Voi, esile e minuta come l’ombra della sera, siete bellissima, eterna, le dissi. Entrai in quello stambugio per nani e pisciai tutto quello che avevo da pisciare reggendomi con la sinistra poggiata alla parete imbiancata a calce. Mi disse che non aveva nulla di pronto ancora, stava preparando i ferri per la carne. Poggiai sul tavolo la 7.65 Parabellum bifilare che avevo dimenticato di riconsegnare. Molti, molti anni dopo, feci il medesimo gesto con un paio di Tokarev TT33, su di un tavolaccio ingombro di AK 47 caricati a traccianti per la buona caccia notturna, quest’estate, era luglio, in due giorni ho percorso duemiladuecento chilometri per uno di loro, lui era venuto al mio, tre anni fa, riconobbi la Mercedes classe S targa diplomatica, mi abbracciò stretto, sentii i ferri sotto le sue ascelle, aveva gli occhi dannatamente infossati, uranio impoverito, vieni quando vuoi, mi disse, la mia patria è la tua patria, tua e dei tuoi figli; ma questa è un’altra storia. Lei, la donna etrusca, scosse il capo e celò quell’acciaio brunito tiepido del mio corpo con un tovagliolo. Mi diede del pane abbrustolito con olio e sale che mi placò il vuoto abissale che scava l’alcool. Rimasi lì a guardarla, mentre mi svaniva la sbronza, l’ombra della sera nella sua compiuta metamorfosi. Quand’anche l’ultima coppia se ne fu uscita le chiesi se poteva chiamarmi un taxi. Proruppe in una risata argentina. Ma dove crede di essere?, questo è un piccolissimo paese, sono le undici di sera e la maggior parte degli abitanti dorme da due ore, la accompagno io. Guidava un Ape Piaggio. Per quattro chilometri non disse nulla. Il debole faro illuminava sprazzi di sterrato tra il rigoglio dell’estate matura che alita sesso e morte. Non volle danaro. Le dissi che serie tornato. Meglio di no, lei rispose ingranando la prima del trabiccolo. Mi ripresentai due giorni dopo. Sobrio. Reggevo un mazzo di rose bianche che avevo comprato nel pomeriggio a Roma ed una bottiglia di Veuve Clicquot. Mi assegnò un tavolino, a fianco della bocca da fuoco, che poi rimase sempre quello. Pose le rose in una brocca di vetro sulla mensola del camino. Aveva dieci tavoli, lei provvedeva alla cucina ed al relativo servizio. No, non aveva mai bevuto champagne. Ci si dava del lei. Una sera mi chiese cosa fosse l’ombra della sera. Le dissi dell’ombra. Lei mi ascoltava. Mi disse della sua figlioletta Sara dodicenne che viveva coi nonni, nella stagione estiva, dopo la morte del padre. Una sera le dissi, dopo che gli ultimi clienti erano usciti, che avrei voluto fare l’amore con lei. Lei mi lasciò uno schiaffo. Non mi mossi, sedevo poggiato coi gomiti e la sigaretta a mezz’aria. La mia guancia arrossiva. Non cambia nulla, le dissi, il desiderio è sempre quello. Così le dissi mentre osservavo la notte venire giù. Lei mi prese la mia mano comprimendola sul suo viso, bellissimo nell’asimmetria etrusca, aveva le guance rigate. Disse, letteralmente, che si era cucita la fica. Una sera arrivai ch’era notte. Stava chiudendo. Sedetti. Lei annuì. Chiuse la porta col catenaccio, tirò la tenda sul vetro d’ingresso. Spense le luci. Le braci andavano gemendo. Versò un bicchiere di mirto denso, un sangue rappreso. Mi si accostò con la seggiola. Alle mie spalle, sulla mensola del tavolo singolo dove cenavo, aveva riposto una bottiglia di vodka. Me ne versai un bicchiere. Già stavo fumando, quindi, quindi la scena era perfetta. Affondai la mano tra i suoi capelli ricci e morbidi che odoravano di fuoco. La sua bocca sapeva di alloro. Lei mi si sedette cavalcioni.

 

Mi prese lì, nel chiarore di una cenere grigia di brace scemante. Fuori sfilava la tramontana e nella luna svettava candido il Terminillo. S’era al crinale di settembre. Grandi nubi andavano nel vento. Bastimenti. Fissandomi i suoi occhi mi entravano a sangue. Le dissi che l’avrei baciata a lungo. Non per lei, non per le sue labbra ma per la prospettiva del suo volto, della sua carne profonda. E lei, con la verità della vita che solo una donna comprende e condivide, tenendomi le guance tra il pollice l’indice della sua sinistra, mi soffocò con la lingua immersa in gola. Dormii da lei. Lei mi chiamava con quel nome perduto. Un’alba mi svegliò. Dalla rocca dove ella abitava aprì la finestra mostrandomi il sorgere del sole che irrorava le terre. Guarda laggiù, ella disse. Quella riga azzurra è il mare. Lo vedi?, annuii. Sentivo il suo corpo nudo aderire al mio. Laggiù, laggiù, laggiù, ella disse. Quella riga appena appena accennata, la vedi? Annuii ancora. Ecco, quello è l‘oltremare, sai vorrei vivere laggiù. Mi morse il fianco a sangue. La lasciai fare mentre piangeva cingendomi, scossa da singhiozzi profondi. Implacabili. Il primo di gennaio mi recai da lei. Non mi aveva mai visto in divisa. Le dissi che ero stato congedato. Lei sorrise. Mi tese la mano e mi disse grazie.

E.T.

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