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L’Infinito, di Emanuele Torreggiani

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Illuminante, di quella luce rischiarante sola della ragione, l’attacco. “Sempre”. In questo avverbio collima tutto il passato, tutto il presente ed il tutto futuro. Il tempo, dunque. Tutto il tempo, tutto quel tempo che nella vita è impossibile vivere. Essendo, la vita, destinata di un tempo dilazionato. Attaccando col “sempre”, il poeta, in sottotraccia, suggerisce una domanda, la domanda ultima: cos’è il tempo? e qui l’unica risposta razionale suona: non lo so, forse il tempo è inesistente; ma, se al contrario, ci chiedessimo non più cos’è il tempo ma chi è, chi è il tempo?, ecco che si disvela l’unica risposta: il tempo è il mio tempo. Quello che ho da vivere. La mia vita. Le mie quattro stagioni. Quindi, con sempre, con questo avverbio temporale, Leopardi illumina una verità estranea al senso proprio della materia, che è caduca, mondana, si corrompe, nasce invecchia e muore, si metamorfizza, ritorna “nel gran mare dell’essere”, per dirla con Dante. E pur essendo, tanto il poeta quanto il pastore, incarnato di materia, il “sempre” dell’Infinito, non indica il mio tempo di essere vivente nella materia ma tutto il tempo che si disvela dentro il concetto. Ed il sempre incarna, di una carne priva di materia ma pur sempre carne, l’infinito. La relazione coniugale tra l’avverbio e l’aggettivo, coniugi congiunti, compenetrati nella sazia misura amplesso, dà forma compiuta al tragico.

Quale forma? la mia vita, la vita del Giacomo Leopardi, la vita che da Adamo arriva sino a noi e prosegue sino all’ultimo uomo. L’ultimo uomo di quel futuro che quando si darà, sarà già presente nel suo essere per il passato. Nella lingua, la superba tecnica, la più grande e perfetta e audace di tutte le tecniche dell’uomo, esosomatica perché la lingua sta fuori il nostro corpo, in un luogo che nessuno conosce, e noi la apprendiamo, fatichiamo per apprendere, e ci illudiamo poi di appropriarcene, già nella lingua si coglie appieno la capacità dell’uomo, e solo dell’uomo, di oltrepassare ogni materia. Sempre e infinito, ne sono qui i due esempi esplicativi. La lingua si dispone per il superamento disponendo, apparecchiando una capacità espressiva estranea al senso materiale. Quando scrivo senso lo intendo nel significato dei i cinque sensi: udito, olfatto, gusto, tatto, vista. Appare evidente che il sempre, come l’infinito, non può essere applicato ad alcuno dei sensi, al sensibile derivante dai cinque sensi. Il sempre si dà all’eterno, l’infinito all’aperto, che dichiarano non più coordinate cronologiche e geografiche, i millenni dell’universo e la sua correlata geografia; sempre ed infinito esprimono l’intelletto, l’intelletto stesso capace di scoprirsi illuminando. La luce rischiarante della ragione. E l’uomo, poeta o pastore, si svela inappagato dai cinque sensi, e da qui la tragedia dell’uomo. “L’uomo è un animale malato”, scrive lo Hegel. Perché vorrebbe vivere di là, nell’immensità. In quell’immensità indeterminata ma determinabile dal linguaggio qui immensamente estraneo alla natura. Che l’uomo guardandola, osservando i regni, animale vegetale minerale, vede la morte. E assume dentro di se il sapere della morte. La morte è il suo sapere. Infatti, e ancora Hegel, “solo l’uomo muore”, la natura ne è estranea, e del suo sapere, l’uomo, costruisce il suo lavoro. Ciascuno con l’osso che si leviga come crede nel corso della sua vita in costante polemica con la morte. Ed il Nostro, lavorando con il suo osso, la lingua, arriva in porto, al “naufragar m’è dolce”, in cui, purtuttavia sempre di naufragio si tratta, egli si pacifica con la morte dentro la dolcezza. La bontà. Quella bontà che fonda la giustizia. “Tutto ciò che è buono è giusto”, scrive Aristotele, e Leopardi lo sa. Nel dolce naufragio di Leopardi si coglie la pace, l’ultimo sussurro di Kant, quel “es ist gut”, quel “va bene così” che il filosofo della ragione proferì come ultimo respiro. Ed in tutto questo, in tutti questi uomini, in questo idillio perfetto ch’è L’Infinito si dispiega l’immensa potenza del cristianesimo in atto. Che non si fonda nel credere supinamente in Dio, ma in quel “verbo che si è fatto carne”. Ed è qui che il Verbo, dispiegandosi in ragione, la Luce, tiene insieme il Tutto. L’universo.

Emanuele Torreggiani

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