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L’essenzialità dell’inessenziale- Omaggio a Rino Tommasi, di Teo Parini e Fabrizio Provera

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“Se non vince Wimbledon entro cinque anni, smetto di scrivere di tennis”.

Siamo nel 1983 e Stefan Edberg non è ancora maggiorenne, con tutte le incertezze, anche tennistiche, del caso. Rino Tommasi si riferiva proprio a lui, giocatore imberbe per il quale da tempi non sospetti nutriva un debole. Da una parte un uomo di innato pragmatismo applicato allo sport, Rino, e dall’altra un formidabile generatore di fantasia, Stefan: non è un ossimoro. Anche ai matematici piace la bellezza; anche gli esteti sanno essere concreti. E così fu amore a prima vista. Lo svedese, scandinavo atipico in quel suo tennis d’antan già allora, esattamente un lustro più tardi solleva il trofeo imperituro per eccellenza nella cornice dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club e, allo scadere della celebre profezia, diventa il campione di Wimbledon. “Ho salvato il tuo lavoro”, disse con tono scherzoso il biondino poi destinato a una grande carriera. Morale, quando si dice avere l’occhio lungo nei pronostici. Che, se è vero che “non li sbaglia soltanto chi non li fa”, giusto per restare nell’ambito del credo di Tommasi, è vero altresì che taluni, baciati da una particolare forma di talento, siano congenitamente meno avvezzi all’errore. Lui, per esempio. Non per nulla il sommo Gianni Brera, che dei soprannomi coniati ad hoc ne fece in vita un’arte sublime, era solito definirlo “Professore”, riconoscendogli “un cervello essenzialmente matematico però capace di digressioni epico-fantastiche”. Non servirebbe aggiungere altro.

Nato a Verona ottantaquattro anni fa – lo stesso giorno di Ken Rosewall, il 23 febbraio, quale evidente segno premonitore – Rino Tommasi ha il merito di aver rivoluzionato il modo di esporre lo sport in Italia, attraverso una narrazione essenziale e senza fronzoli ma esaustiva. Marchio di fabbrica, il suo, che è somma di tre ingredienti facilmente riconoscibili: concetti brevi e mirati, chiarezza espositiva suffragata da dati certi, neologismi universalmente riconosciuti. Un giornalismo che, prendendo in prestito un fortunato claim pubblicitario, ancora oggi continua a vantare innumerevoli tentativi di imitazione.

Tommasi e lo sport a trecentosessanta gradi è un rapporto che viene da lontano. Prima giocato, poi studiato, quindi organizzato e infine narrato, in un doveroso crescendo di popolarità e apprezzamento. Una laurea in scienze politiche conclusa da una tesi relativa proprio all’organizzazione internazionale dello sport, Rino può vantare di essere stato il più giovane promotore di pugilato al mondo, l’altra sua grande passione insieme al football americano, e, manco a dirlo, il primo in Italia. Antesignano. Tennista di un livello più che accettabile, in bacheca anche quattro titoli italiani universitari, e giornalista dall’età di diciannove anni, di Tommasi si ricordano innanzitutto le prestigiose collaborazioni con le principali testate italiane in un’epoca nella quale è per ovvi motivi il cartaceo a monopolizzare l’informazione. Tuttavia sarà il piccolo schermo a farne un mito dello sport raccontato. Primo direttore dei servizi sportivi di Canale 5, all’epoca neonato canale generalista, e poi di Telepiù, la prima avveniristica piattaforma televisiva a pagamento del nostro paese, se milioni di spettatori si sono avvicinati a sport soggiogati alla legge del calcio – en passant, Rino è anche grande tifoso del Verona – buona parte del merito va attribuito all’intuizione che ha dato alla luce programmi cult come La grande boxe e Il grande tennis. Un concentrato di competenza applicato alle dinamiche televisive che ha aperto un’era nuova, in un contesto segnato da una cultura non sempre all’altezza del ruolo educativo dello sport. 

In una carriera stabile su livelli di eccellenza, l’acme tommasiano, è pensiero di molti, viene raggiunto nella veste di telecronista. Poliedrico, Rino avrebbe potuto cimentarsi al microfono in più di una disciplina con lo stesso identico risultato, esaltante quindi, ma è ovviamente l’universo tennis ad aver maggiormente beneficiato della sua attività professionale. Con la televisione di stato che salvo sporadiche eccezioni relega appunto il tennis a ruolo di comparsa, e l’approdo contemporaneo sui canali del gruppo Fininvest dei principali tornei del firmamento mondiale da tempo dimenticati, il sodalizio Tommasi/Clerici – Gianni è un altro gigante dei nostri tempi – irrompe sul panorama nazionale e ne fa piazza pulita, tanto che nulla sarà più lo stesso. Quella della strana coppia, non secondariamente di amici, è una proposta inimitabile, frutto di due conduttori antitetici come il giorno e la notte il cui incastro stilistico ha la precisione millimetrica di un puzzle. Rino, da profondo conoscitore del meccanismo, detta i tempi, un metronomo; Gianni, per Tommasi il Dottor Divago in una delle sue proverbiali etichette, porta invece nei salotti degli italiani l’atmosfera da belle epoque parigina, in una romantica valorizzazione del bello. Statistiche e gesti bianchi in polifonia, è il ping pong del fatto che incontra il motivo, quindi arte. Il risultato, paradossale ma fino a un certo punto, è che sono più le volte in cui il merito di aver tenuto gli appassionati francobollati per ore al piccolo schermo sia da attribuire più alla telecronaca che al match in sé. Il segreto? Divertirsi con competenza. “Ci pagano per svolgere un lavoro per il quale pagheremmo noi!”, la celebre chiosa a suggellare l’assioma.

Il fiorire dell’amore per il tennis, forse il più importante della sua vita sportiva, ha storicamente una data precisa, come si conviene per un cultore dei numeri, e non è una qualunque. Il 14 luglio del 1948, un secolo e mezzo dopo la presa della Bastiglia che ha rivoluzionato la storia dell’uomo, in Italia è infatti il giorno dell’attentato a Togliatti. L’indomani, Gino Bartali, professione ciclista, firma sulle Alpi l’impresa che vale il Tour de France salvando un paese alla deriva, tra verità, leggenda, politica e sport, da una possibile guerra civile. Tommasi, quel giorno quattordicenne – ce lo ricorda lui stesso – imbraccia per la prima volta una racchetta, virtualmente non la mollerà più. E se grazie al tennis, Rino, l’Italia non l’avrà salvata in senso stretto al pari del Ginettaccio pedalatore, che l’abbia saputa traghettare in uno straordinario processo culturale è fuori di dubbio. Tra i tanti cavalli di battaglia ideati dal Tommasi cronista che ne hanno conferito tridimensionalità al pensiero, due in particolare evocano negli aficionados un’appagante forma di nostalgia: il personalissimo cartellino e il circoletto rosso. Espressioni che stanno allo sport come i teoremi euclidei stanno alla geometria.

Il primo, splendido retaggio concettuale dell’universo pugilistico, è il taccuino sul quale Rino, quale supremo giudice televisivo, annota gli elementi salienti di un incontro – i punti, ripresa per ripresa – grazie ai quali formulare un verdetto di merito prima del sopraggiungere di quello ufficiale. “Gli arbitri – disse una volta – possono essere d’accordo con me o sbagliare”. Lapidario e senza falsa modestia, come piace al suo pubblico. Il secondo, invece, è forse la sua più geniale creazione in ambito prettamente tennistico, tanto che oggi la nota asserzione di encomio è patrimonio dialettico di ogni circolo italiano in cui si respiri aria di tennis. Rino, con una penna rossa, cerchia sugli inseparabili appunti, che scientificamente condensano un match in una paginetta ordinata di quaderno, i quindici da ricordare, per l’elevato contenuto tecnico del gesto – un ricamo, parafrasando ancora una volta Tommasi – o per l’importanza ai fini del risultato, dandone quindi evidenza verbale in telecronaca. “Circoletto rosso!”, era solito esclamare al microfono con l’inconfondibile timbro nasale che abbiamo imparato a riconoscere. Pathos, in un habitat di applausi scroscianti. Un patrimonio universale: chiunque si sia cimentato con alterne fortune nella nobile disciplina che fu di Bill Tilden ha sicuramente circolettato di rosso nella mente, almeno una volta, un colpo ben riuscito, con tutta l’enfasi del caso. Influencer, il Professore, come si direbbe oggi.

Le graduatorie di merito, compendiando nell’analisi epoche differenti e in assenza di parametri di giudizio oggettivi e insindacabili, rischiano di lasciare il tempo che trovano e di questo, Salvatore detto Rino, ne ha sempre fatto una spada nella roccia. Sono in molti che hanno provato a domandargli chi, secondo lui, potesse assumere la qualifica di tennista più forte di sempre ma senza successo. Se in ambito tennistico la questione affascina assai ma al contempo si mantiene irrisolta, anche in un’enciclopedia vivente come può essere appunto Tommasi, il giornalismo sportivo italiano tout court il suo GOAT lo ha però eletto all’unanimità. Sì, perché Rino al microfono è il migliore di sempre. Ce ne siamo resi conto quando, senza troppi proclami, ha appeso le cuffie al chiodo, lasciando dietro di sé un vuoto di potere per molti versi incolmabile. Questione di carisma e, cosa che non guasta, di quel pizzico di presunzione di chi sa perfettamente di sapere. Nemico giurato del politically correct, Tommasi ha sempre manifestato con libertà e risolutezza il proprio punto di vista in ogni ambito via via affrontato, senza che la diplomazia finisse mai per farla da padrona. Scevro di ogni forma di piaggeria gratuita, ha sempre risposto in prima persona per le sue granitiche prese di posizione, scomode e controcorrente se necessario.

Inoltre, sono diversi i giornalisti in attività a cui Tommasi ha spalancato le porte di una professione meravigliosa, spesso bistrattata ma comunque privilegiata nel consentire la possibilità mai banale di fare informazione. Un maestro, Rino, che immaginiamo severo e puntiglioso ma capace di premiare le doti dei suoi più giovani compagni di avventura.

In più di un ventennio di telecronache bevute tutte d’un fiato abbiamo ascoltato e fatto nostre una moltitudine di frasi cucite su misura per imporre immediatezza e colore a un concetto preciso e non c’è che l’imbarazzo della scelta. Tra un “palla calante, volée perdente”, “punteggio isoscele”, “il colpo con il botto paga sempre”, “siamo in stazione”, “veronica” e un “chiamato a giocare di fino rivelava le sue umili origini”, una pillola esemplifica al meglio la capacità dello sport di essere fonte di insegnamento, è pertanto doveroso farne memoria. “Tu buttala di là (la palla, ndr) non è detto che ritorni”. Che, se nel gergo della disciplina del diavolo significa strettamente far giocare sempre un colpo in più all’avversario, perché chiamato a replicare il gesto potrebbe finire per sbagliare, nel quotidiano si traduce nello stimolo a non darsi mai sconfitti nelle avversità, nel nome di quella speranza che è sempre l’ultima a morire. Rincorrere pancia a terra e restituire al mittente le vicissitudini che possono apparire senza soluzione, insomma. Abnegazione, volontà, perseveranza, tutte spalmate sui playground dell’esistenza. Perché sport è vita, e viceversa.

Senza inutili giri di parole, Rino, l’artefice della passione viscerale chiamata sport per almeno un paio di generazioni di atleti da poltrona, manca molto a tutto l’ambiente, nonostante la qualità talvolta innegabile di alcuni virtuosi epigoni che quotidianamente si adoperano per raccoglierne l’ingombrante eredità. Ma si sa, nulla è per sempre e l’orologio un tiranno, anche al cospetto di coloro che il nostro palato vorrebbe sentire immortali. Se l’elisir di lunga vita è ancora una chimera incompiuta, Tommasi, al solito più serio che faceto, in tempi non sospetti una scappatoia l’aveva però individuata. Disse all’uopo: “L’unico modo per non invecchiare è morire giovani”. Fortuna (nostra) vuole che, nel dubbio, Rino abbia lasciato carta bianca a Chronos, il dio del tempo, invecchiando nel corpo, come noi tutti del resto, ma allungando, finché il suo desiderio di esserci lo ha reso possibile, una parabola giornalistica che per rimanere giovane non necessitava affatto di dover morire. Anzi.

Per concludere, a Rino, ideatore anche del game perfetto – quello in cui con quattro ace su quattro tentativi il giocatore alla battuta non fa toccare la palla all’avversario – ci sentiamo di dedicare, in stretta analogia e a titolo di ringraziamento per l’insegnamento elargito senza soluzione di continuità, la qualifica di cronista perfetto, sperando di fare cosa gradita. Perfetto è colui che per cinque set, e cinque ore di match, riesce nell’impresa titanica di non sbagliare una data, una statistica, un punteggio, un nome, un ricordo, un precedente, un momento televisivo. Impossibile? Si, ma solo per tutti gli altri. Greatest of all time mica per niente, il Professore. E allora, game, set and match Tommasi. Standing ovation. 

Teo Parini

 

LE IRRESISTIBILI SEDUZIONI DI RINO

E’ il 1989, o giù di lì. I pruriti dell’adolescenza di un 16enne. Su Italia 7, l’ex Gatto Umberto Smaila rivoluziona il costume televisivo di seconda serata con le ragazze Cin Cin e le spogliarelliste dilettanti che, molte lune dopo Corrado Mantoni e la Corrida, si concedono discinte alle telecamere. Chi scrive non era appassionato di boxe, ma andava pazzo, letteralmente pazzo, per la sigla di ‘Boxe di notte’, il programma (di seconda serata) che le reti Fininvest (Mediaset era di là da venire, ancora) affidarono a Rino Tommasi.

La voce in sottofondo dello spot di quel magnifico programma era nera, jazz, disperata, calda, femminile.

Era avvolgente, totalizzante. Come l’amore di Rino Tommasi per questa ‘disciplina’, ossia la voce narrante che cerca di trasmettere al telespettatore il pathos dell’unico ‘segmento’ esistenziale dove prevale il Giusto, talvolta il Bello; lo sport.

Fu amore a prima vista. Culminato nell’unico incontro dal vivo: Forum di Assago, 1991, sta per giocare Cristiano Caratti. Mi sporgo dalla balaustra del primo anello. Rino Tommasi è lì, sorride e mi firma un autografo. Elegante, imperioso, luminoso. ‘Grazie Rino’.

Poi le telecronache, inarrivabili e inimitabili: Jimbo Connors che bello suonato dall’età infiamma Flushing Meadows, la forza teutone del 18enne Boris Becker, la grazia della volée di Edberg, il rimpianto per le notti di Adriano Panatta spese nei locali e non ad allenarsi, la corrispondenza d’amorosi sensi tra lui, Gianni Clerici e Milosav Mecir, che nella prossemica tommasiana diventa Gattone, con quella faccia un po’ così e quell’espressione un po’ così, se Paolo Conte lo avesse conosciuto qualche decennio prima avrebbe traslato i gamberoni rossi dalla Liguria alla Slovacchia, la terra di Mecir.

Agassi, Sampras, Wilander, Gabriela Sabatini, Steffi Graf: i campioni che, in virtù della prominente grazia tommasiana, ascendono dal rango di campioni a quello di icone.

Rino Tommasi da Verona, come l’Amarone di Bepi Quintarelli o di Romano Dal Forno: lungo, eterno, appassito sui graticci fino a diventare sublime. Complesso, forse anacronistico. Passatista.

Nessuno mai, nessuno più come lui. I nani di cui si è sempre lamentato Tommasi, dopo essersi seduti sulle spalle dei giganti, hanno preso il microfono. E da allora, da quando anche il grande Aldo Giordani non si sente più, siamo passati da Hemingway e Simenon ai romanzi Harmony,  con pochissime (ancorché lodevoli) eccezioni.

Rino Tommasi scandiva le parole delle telecronache nello stesso modo in cui Paolo Conte batteva i tasti del suo pianoforte, circondato da sommi maestri:  Nunzio Barbieri, Daniele Dall’Omo e Luca Enipeo alle chitarre, Lucio Caliendo all’oboe, al fagotto, alle percussioni e alle tastiere, Claudio Chiara al sax, al flauto, alla fisarmonica, al basso e alle tastiere, Daniele Di Gregorio alla batteria, alle percussioni, alla marimba e al pianoforte, Massimo Pizianti alla fisarmonica, al bandoneon, al clarinetto, al sax, al pianoforte e alle tastiere, Piergiorgio Rosso al violino, Jino Touche al contrabbasso e alla chitarra, infine Luca Velotti al sax e al clarinetto.

Rino Tommasi come la verde milonga ‘rielaborata’ dall’avvocato astigiano:

Alle prese con una verde milonga
Il musicista si diverte e si estenua
E mi avrai verde milonga che sei stata scritta per me
Per la mia sensibilità per le mie scarpe lucidate
Per il mio tempo per il mio gusto
Per tutta la mia stanchezza e la mia mia guittezza
Mi avrai verde milonga inquieta che mi strappi un sorriso
Di tregua ad ogni accordo mentre mentre fai dannare le mie dita
Io sono qui sono venuto a suonare sono venuto ad amare
E di nascosto a danzare
E ammesso che la milonga fosse una canzone
Ebbene io, io l’ho svegliata e l’ho guidata a un ritmo più lento
Sono cambiate le sensibilità, il gusto e le scarpe. Resta solo, fugace come un lume visto in lontananza, la grandezza senza fine (e senza tempo) di Rino Tommasi. Guitto aggraziato.
Et alors, monsieur Rino, ca va?
Fabrizio Provera

 

 

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