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Le Notti Bianche a Magenta – di Emanuele Torreggiani

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Seduto sul paracarro, granito immemore, l’auto spenta a lato, ho acceso una sigaretta. La brace a compagnia. La campagna aperta e ferma nella luna bianca e di nubi al passo. Pioverà. Nel silenzio, lieve il suono della terra che ruota sul suo asse mentre lassù, nel profondo cielo occidentale, colgo il riflesso delle onde del nero mare sciabordante lungo il ciotolame che scarroccia franando da quando, novecentosettantaquattro generazioni prima della Creazione, Dio prese a lavorare immaginando il mondo. Così è scritto. Non ha ancora finito, noi ne siamo la sua prosecuzione lavorativa. Traguardo la strada nitida. Non il riverbero d’un faro e laggiù, aggrumate nel buio, le sagome delle prime case di periferia cittadina. Filtra qualche luce smorzata tra le commessure delle imposte serrate. Chirurgici i lampioni al rondò dove scorgo trapassare i lampeggianti dei carabinieri di ronda. Eccola lì la città nella quale vivo i cinquantotto anni dei sessantadue.

 

Una piccola città dal nome illustre, Magenta, dove i ragazzi che fecero il Risorgimento tenevano nello zaino battente il dorso copia dei Sepolcri del Foscolo. Mai la vidi così ferma e mai più così Signore. L’aria alita pura paura. Notte. Ora prima. Nell’auto colgo la sonata opera 35 n°2. Arturo Benedetti Michelangeli, Federico Chopin, Marcia Funebre. Già l’attacco trapunta il dolore disteso per l’ovunque, dalle campagne al cielo alle case. Alle stanze, ai letti, ad ogni cuore. Si può intravvedere una madre che sfiora la fronte al suo bimbo e sorridere rasserenata. Tutta la verità di quelle novecentosettantaquattro generazioni antecedenti la creazione collima in questo gesto. La cura. Sussurro, non grida. Ah, eccolo lì il Manzoni. Come li sciacqua bene i panni in Arno, una sola profonda parola, grida, che riveste, per il suo tempo quanto il nostro, la greve politica di queste ore sciagurate. Che sono stati anni e decenni di tribalismo. Uh, uh, uh, e pugni sul petto e digrignar di denti. E ancor ora, ora seconda, scorrendo il palmare ridda di isteria. Brutalità che danno all’untore e invocano il marziale. Quasi che la parola sia un vocabolo. Non sarà mai così. La parola costruisce, e la vidi coi miei occhi questa costruzione: impiccati e fucilati buttati lì, sulla nuda terra immota e indifferente in apparenza, ma dolente nel suo ribollire profondo dove la creazione non s’è tutt’ora spenta. L’atto perfetto di quella madre testimonia. E colsi, dei boia, la soddisfatta sazietà. Ma non passa di lì la guarigione. Traverso questa città agli arresti. Mi fermo all’Ossario della Battaglia, dove il Duca Mac Mahon verdica nel suo bronzeo chiasmo di soldato in marcia e nella cripta i crani desugati dei caduti velati dalle tele di pallidi ragni. I Sepolcri smarriti, questa la politica delle grida, di anni e decenni gridati. Privi di prospetto. Uh, uh, uh. Tamburi e scritte sui muri. Slogan per venditori di bric a brac. E, ad ogni tornata elettorale, il cupio dissolvi della roba mia vientene con me. Accosto ad un’ambulanza al passo. Taglio per la basilica, serrata. La vedo spalancata e illuminata, nel gran silenzio della notte, da candele di cera che dispongono, nell’andare della brezza, volti che il Medardo Rosso seppe plasmare nella speranza che li si scorgesse. Prega per noi e nell’ora della nostra nascita, Signore. Non lo so se sarà la resurrezione dalla carne o solo terra. Non so niente. È quasi ora di scrivere per traghettare il dolore della notte. Johann Sebastian sino all’alba. Ah, sul sagrato della basilica la consueta discarica pro tempore della sguaiataggine commerciale. Desolante. Trapasso il centro. Nello specchietto la ronda. Strade. I dieci piani dell’ospedale. Le fioche luci notturne. La supplica della mano di un morto, sotto lo scintillio di una stella che si va spegnendo. Il cancello lampeggia. La ronda prosegue. Accenno al sacro ulivo che tra breve lascerò per sempre. Ora terza. Fratello ricordati che dovrai morire. E sono stati loro, i monaci, che hanno costruito questo mondo. Con materna cura. Non altri. Dal palmare ancora grida in cui tutti i volti mostrano un solo volto, la soddisfatta sazietà. Uh, uh, uh. Questa la politica, epigona del virus. Cosa si dovrebbe gridare? Voltare pagina: all’inizio dei tempi… non accadrà. Non m’importa. L’Ora Terza, arriva.

Emanuele Torreggiani

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