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Dall'archivio:

La nostra Bullona, di Emanuele Torreggiani

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Accade quaggiù, in quel casolare ultimo a mezza lega dal bosco dove, di là dagli alberi, scorre il fiume dalle frementi acque acciaiose in un letto a sassicaia di quarzo travolto nello scorrere di millenni cangianti e la rongia, adiacente le porose mura, smuove da anaconda le alte erbe della scesa in cui s’annidano retori grilli. Al vertice dei pioppi cicale irridenti. Per l’ovunque una brezza smuove a onde il mare verticale del mais diviso dalla serpentina strada quale intuì Mosè dirimpetto le acque. La brezza alterna composta, nella forma divina, tonico alito e fiato di ventre. L’estate si matura. Apparizioni di allocchi, agguati di serpi, guizzi di ramarro, scarti di lucertole, foglie incartocciate, sciami conici di mosche, mantellati pipistrelli ingordi. Il disperato raglio. Ma la notte salda il silenzio, quando noi si arriva discendendo il serpentino catrame verso quelle luci a costellazione raminga. Lasciamo gli abitacoli intrisi di fumo e sparsi di cenere e incediamo, le nostre scarpe lustre che caracollano per marmi e moquette, sulla breccia di un quarzo immemore che non restituisce traccia, al portico spiovente dove una preziosa chellerina ci accoglie coll’innocente sorriso carico di divertita pazienza. Sono arrivati all’ora prossima della chiusura.
Si, l’ora nostra. Mentre ci accomodiamo all’aperto, quali remoti principi di regni defunti, sulla paglia di seggiole sgrossate a colpi d’ascia, versiamo dal secchio argentino di ghiaccio il nostro vino consueto, cascate di bolle, senza per altro avanzare pretese, la cucina è chiusa, noi s’accetta, con gioia luminosa, dal fondo della padella rovente uova e pancetta e tagli di salumi e spacchi di formaggi. Noi quattro o cinque o tre o due, o me solo, si riconverte la luce diurna dentro la notte, nel suo silenzio fetale. E sulla brezza arriva il canto polifonico dell’acqua laggiù, di là dagli alberi. Attendiamo l’inverno, quando accade all’ora nostra. Quando la bruma ormai monta ad altezza d’uomo e il silenzio veste abissi vertiginosi e lì, smarriti, lo sentiamo. Appena un frullo: la terra che ruota sul suo asse. Grazie Stefano Viganò.
Emanuele Torreggiani

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