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Dall'archivio:

La neve (e un ricordo del dottor Alberto Recusani)- di Emanuele Torreggiani

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

La luce bianca, ch’è la luce degli astri, compatta il cielo. Avevo sei anni. Sant’Ambrogio. Ero a casa da scuola, causa tonsillite. Infatti l’estate seguente fui operato. La notte in febbre alta, ed al mattino, col sapore in bocca di ferro, imbacuccato, avevo avuto il permesso di starmene in salotto, sul divano a leggere, se avessi voluto.
Ma gli occhi febbricitanti andavano via dalle righe di quel libro ‘Fiabe canadesi’, che mi nutrivano di timore scorrendo di un’idra, illustrata con le fauci di drago, che andava succhiando tutta l’acqua di un grande lago e di due coraggiosi e piccolissimi indiani, in piedi su di una canoa, che sfidavano la bestia armati di arpione mentre alte onde inabissavano. Temevo per la loro vita. Ascoltai la casa, il fruscio di mia madre che andava e veniva tra le stanze, in un ora che non mi era abituale. E guardando dalle ampie vetrate quel cielo compatto assopii. Mi svegliò il gracidio del campanello. Era il medico che veniva in visita. Entrò con passo militare ordinandomi di alzarmi mentre lui sedeva e mi drizzava il capo alla luce della finestra. Scendevano fiocchi ampi e fitti. La neve, esclamai. E lui, gli abiti aurati di freddo, disse che odiava la neve. Apri la bocca, e mi scrutò, con il manico di un cucchiaio a schiacciare la lingua, la gola. Proseguire con la terapia, disse a mia madre informandosi se mi fossi scaricato ed ottenuto un cenno negativo comandò, subito, due cucchiai di olio di ricino. In casa per sette giorni, se sale la febbre chiamatemi. Mi salutò con uno scuffiotto. Succhiai una caramella per cacciare la patina di olio sulla lingua e guardavo dal quinto piano del palazzo dove abitavo venire la fiocca lenta lenta. Rade le auto al passo e i grandi camion, che allora trapassavano la Magenta, fendevano in un suono nuovo, lontano e morbido. L’ovattato. Nessuno sui marciapiedi fin dove riuscivo a vedere. E i grandi pini, della casa di fronte, alti e candidi, piegavano i rami inchinandosi alla sera che si faceva pallida nel riflesso dei lampioni. Dalle commessure del tinello usciva aroma di caffè e tabacco, sospinto dalla finestra aperta, quando gracidò nuovamente il campanello e dall’interfono udii nitidamente la voce metallica di un adulto che chiedeva se abitassi lì, c’era un collo da consegnare. Mia madre, credendo dormissi, chiese cosa mai fosse e l’uomo gridò una bicicletta. Prima di scendere mia madre guardò se dormissi ed io chiusi gli occhi. Quando sentii l’ascensore che partiva andai alle finestre e vidi in strada un camion parcheggiato e la bicicletta gialla, come la desideravo, che veniva scaricata sotto la neve. La mia biciletta che si raffreddava tutta… Era il Babbo Natale che mi aveva chiesto mio zio che abitava molto lontano. Mi guardai intorno, incredulo. Aprii la finestra ed entrò una ventata di aria fredda e solida, respirai ed era una sorsata d’acqua di sorgente. Anni e anni e anni dopo, più o meno sempre in questi giorni, camminando lungo una via cittadina, incontrai il medico di quel tempo già perduto. Era vecchio. Mi salutò abbracciandomi e chiedendomi della vita, ma non presi a rispondere che subito il viso gli indurì e l’occhio, a fessura, mi chiese grado e corpo, ordinandomi di rientrare immediatamente al comando, per chiedere rinforzi che aveva tre ragazzi in congelamento grave agli arti inferiori, ed uno, che aveva appena amputato. Ha solo diciannove anni, gridò. Lo riaccompagnai a casa sotto braccio. Piangeva. Campagna di Russia 1943. Si chiamava Alberto Recusani.
E ormai sono morti. Tutti. Dura la morte. Ora, il dono sarebbe come allora. In quella neve. La nevicata dei sei anni. L’idra che beve il lago ma viene trafitta e sconfitta. Protetto da tutti loro intorno, sereno nella febbre, con la bici in garage per la primavera imminente, e ascoltare il silenzio che fa la neve. Il silenzio di Dio.
Emanuele Torreggiani

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