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La letteratura serve a vivere. Consigli di lettura. Di Emanuele Torreggiani

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In ore ormai sormontanti a giorni e giorni dove la miseria sovrana a canicola e collima con l’afa espressiva, si potrebbe, potendo governare il volere, agganciare l’arrampicata d’un migliaio di pagine. Respiro d’una sinfonia in aria aperta. Dopotutto “perché i poeti in tempo di miseria” si sarà domandato Federico Hölderlin, rispondendo come “il linguaggio sia il bene più prezioso ed al contempo più pericoloso che gli dei hanno donato” agli uomini. Così viene incontro il ‘mio amico’ Joseph Roth con il suo ‘La tela del ragno’, scritto nel 1923 e uscito due giorni prima del putsch di Monaco, il colpo di stato tentato e fallito da Adolf Hitler che gli costò otto mesi di carcere. Un racconto lungo (Adelphi) in cui il sommo scrittore galiziano (il suo titolo più celebre è ‘La leggenda del santo bevitore’ che vedrà l’eccellente traduzione cinematografica di Ermanno Olmi), anticipa il doppio decennio che seguirà cogliendo, con dettagli che, postumi, paiono profetici, la totale distruzione della più grande cultura mondiale: lo spirito tedesco, tema principe che Thomas Mann, nel suo Faust (1947), la storia del compositore Adrian Leverkϋhn, elaborerà nella sua cifra stilistica sovrana mostrando la corruzione etica già in atto sino alla totale capitolazione, la disfatta del cupio dissolvi nel maggio 1945.

Nel 1923, il piccolo ebreo galiziano, narratore di primissimo piano, aveva visto tutto. E narrato tutto, il ‘mio amico Roth’, i suoi libri mi hanno solidamente accompagnato negli anni del noviziato, morirà poi a Parigi, esule, senza un soldo, nel 1939, alla Brasserie Lipp; nella tasca interna della frusta giacca rinvennero una Moleskine e l’ultima scrittura sua, precisa, ordinata in una calligrafia sotto dettatura, La leggenda del santo bevitore, appunto. Di Lion Feuchtwanger, I fratelli Oppermann (1934), romanzo di assoluta rilevanza per capire e comprendere, e leggendo vivere, cosa significa il “totalitarismo perfetto”, quello realizzato da A.H. Il volume esce in Francia nel 1934, l’autore era all’indice e, in italiano, nel 2014 per le edizioni Skira. I fratelli Oppermann sono un potente affresco, in presa diretta, della mutazione culturale e cultuale di una società, quella tedesca e la correlata persecuzione ebraica. Per chi, in queste ore, utilizza indiscriminatamente il termine razzismo e si produce in comparazioni storiche e geografiche potrebbe essere autentica rivelazione di come il detto holderliniano sia vero e giusto. Si coglie nel romanzo, che segue una ricca famiglia ebrea della borghesia industriale: antesignani dell’industria del mobile standardizzato, la potenza del totalitarismo e la sua pervasività in ogni commessura, anche intima, del vivere sociale. Resistervi significava o l’esilio o la morte. Che io sappia l’unico romanzo che è stato scritto nel periodo di ascesa del nazionalsocialismo avente come tema proprio questa ascesa e la correlata discesa a precipizio dello spirito culturale germanico, per intenderci, come riferimento dal Grande Goethe…

Poi Hans Fallada con il suo romanzo “Ognuno muore solo” scritto nel 1946, l’anno della sua morte (Sellerio). Uno tra i pochissimi autori che non abbandonò la Germania nazista, si ritirò a vita privata, con Gottfried Benn e il sommo Ernst Jϋnger impegnato come ufficiale dell’esercito sul fronte Occidentale, uno degli uomini che ha salvato Parigi dalla distruzione totale ordinata da A.H. dopo lo sbarco angloamericano del 1944. In “Ognuno muore solo”, Fallada, scrittore di indubbio mestiere, la sua cifra è il realismo, dimostra l’impossibilità della parola intima dentro il perimetro del totalitarismo. Un uomo, il personaggio principale, ha perduto l’unico figlio sul fronte orientale. Un semplice operaio, una semplice moglie, un figlio unico. Pur devastati dal dolore non ne possono fare menzione alcuna, e come loro milioni di altre famiglie tedesche che stanno perdendo i loro figli soffocate dentro il solido silenzio. Il parlarne segna già tradimento, e il tradimento ordina la decapitazione. Finiranno davanti al boia.

Ora, sia detto con ferma chiarezza, la letteratura non serve a niente. Il suo operare non rientra nel servire. Non serve la letteratura, la letteratura spiega. Spiega com’è la vita, non cos’è. Per il cos’è ci si rivolga altrove. Lo scrittore narra com’è la vita. Si legge per vivere. Solo per vivere, e non sembri cosa da poco.

Emanuele Torreggiani

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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