Per decenni siamo stati ossessionati dal mantra che la cultura serve a includere e avvicinare persone e popoli, non per dividere, dimenticare, mettere da parte, allontanare. Gli intellettuali si sono prodigati a far sì che nessuno venisse escluso e la maggioranza, se non tutti, fosse inclusa, nessuno dovesse restare fuori, nessuno fosse respinto, nessuno fosse ai margini, dimenticato. Nessuna cultura, anche la più lontana dai nostri canoni occidentali, anche la più ristretta e locale, deve essere ignorata, tutte devono essere prese in considerazione e poste praticamente sullo stesso piano, tutte hanno una loro dignità per lontane da noi che possano risultare, altrimenti ci si comporta metaforicamente come i nazisti che bruciavano i libri sgraditi, quelli di autori e idee che non condividevano.
Sembrava un punto di vista accettato, condiviso. Quasi un luogo comune, e chi non lo teneva da conto era considerato un reprobo, un nemico della vera cultura democratica. E invece, quasi all’improvviso, ci siano accorti che le cose non stanno così, che la inclusive culture non vale più, che a quanto pare ha fatto il suo tempo. Era una farsa, una presa in giro, o magari solo una ipocrisia che faceva comodo, ed il suo posto è stato preso di punto in bianco dalla cancel culture, quella che si è proclamata tale dopo le manifestazioni violente che hanno sconvolto molte città degli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd, un uomo di colore ucciso da un poliziotto a Minneapolis il 24 giugno 2020. Vere e proprie sommosse che non si sono limitate a incendi, saccheggi e generiche devastazioni praticamente impunite, ma hanno sistematicamente preso di mira statue, busti, targhe, lapidi, scritte ed espressioni concrete di quella che è stata considerata una cultura “razzista” e “colonialista”, cioè reazionaria, conservatrice, sostanzialmente “fascista” of course, una cultura quindi da cancellare materialmente e non solo ideologicamente, distruggendola e abbattendola, a cominciare dalle molte statue di Cristoforo Colombo, colpevole di aver “scoperto l’America” pur pensando di aver “scopetto l’India”. E’ appunto la “cultura della cancellazione” che prende il posto senza soluzione di continuità della “cultura della inclusione”, e di questa cancellazione se ne fa tanto vanto da autodefinirsi così. E’, diciamo, un effetto pratico collaterale della digitalizzazione del mondo e del prevalere del Pensiero Unico: in origine infatti nasce nella Rete la rimozione programmatica da parte di singoli navigatori o di associazioni di tutto quanto non sia “politicamente corretto”, punto di vista che ormai rappresenta il bello, buono e giusto per definizione, per principio, a priori, che si deve accettare senza discutere, pena appunto la rimozione da internet o la distruzione nelle piazze.
C’è qualche differenza in sé fra i libri ammucchiati nella Openplatz di Berlino dagli attivisti nazisti con il braccio teso il 10 maggio 1933 (la Bücherverbrennung) e dati alle fiamme in una specie di sabba e le statue divelte, fatte cadere, gettate in mare, asportate con le gru tra folle deliranti con il pugno chiuso nel mese di giugno-luglio 2020? Nessuna differenza sostanziale, ma solo ideologica per cui una azione è vituperabile e l’altra apprezzabile. Il fatto di distruggere una cultura invisa rimane e non è stato condannato dalla intellighenzia italiana che conta, non mi pare abbia suscitato corsivi, commenti, editoriali indignati. Negli USA invece c’è stata la coraggiosa “lettera aperta” pubblicata su Harper’s l’8 luglio da 150 importanti personalità inglesi e americane che però ha purtroppo lasciato il tempo che trova: anche l’autorevolezza cede di fronte alla pura demagogia. In Italia qualche anticonformista si è permesso di notare che il passato si cerca di capire, di interpretare, di spiegare collocandolo nel suo tempo, non di cancellare alla lue dei valori di un secolo e mezzo dopo (come peraltro era avvenuto sino a quel momento negli Stati Uniti).
E del resto una cultura che pone come suo obiettivo quello di “cancellare”, e di ciò è orgogliosa, non può essere ridotta alla ragione per il semplice motivo che ritiene essa stessa di essere la Ragione Assoluta e quindi insindacabile. Quanto avvenuto negli USA a giugno-luglio 2020 non soltanto crea un pericoloso precedente, ma è anche un sintomo allarmante. D’ora in poi manifestazioni del genere saranno sempre tollerate, giustificate, avallate. Infatti, se possono essere comprensibili alla caduta di un regime quando se ne distruggono i suoi simboli materiali (caduta del fascismo, fine dell’Unione Sovietica, sconfitta di Saddam), qui è stato diverso: un vandalismo inaspettato per la sua violenza e vastità, si direbbe quasi programmato ed eterodiretto, che ha avuto anche echi in Europa (in Italia la ridicola vernice rossa sulla statua di Montanelli), e che si potrebbe ripetere se si verificheranno spunti adatti. Se certi atti vandalici sono stati accettati e non impediti una volta, possono benissimo essere un’altra.

Il sintomo è quello della crisi in cui versa da un pezzo la cultura occidentale in genere, che è sulla difensiva, che si sente messa in un angolo, che non riesce a reagire con le idee e le parole adatte, che in sostanza prova assurdi sensi di colpa e sa soltanto chiedere scusa, simboleggiata dalla statua di Winston Churchill a Londra chiusa da impalcature di legno per proteggerla dagli assalti dei contestatori, un “padre della patria” sotto accusa di “colonialismo” e “razzismo”. Se la cultura occidentale è costretta a ripararsi dietro effimere protezioni si vede che non ha più nulla da dire, è al suo spengleriano tramonto.
Ha vinto allora anche indirettamente la “cultura della cancellazione” che non si vergogna di definirsi tale perché evidentemente ritiene di essere dalla parte della ragione, ragione che è tanto forte da potersi permettere di cancellare le culture diverse da essa perché si ritiene superiore, più giusta e quindi più forte. Come appunto si ritemevano i nazisti giunti al potere nel 1933 quando il ministro della cultura Joseph Goebbels, di fronte a quei roghi di una cultura avversaria, sostenne l’utilità di “eliminare con le fiamme lo spirito maligno del passato”. Lo stesso punto di vista dalla cancel culture di novant’anni dopo…
Gianfranco De Turris (da www.barbadillo.it)