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‘Je suis Venturì’. Magenta, gli amici di Massimo non dimenticano

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Lele, Teo, Fede, Filippo e Omar. Metti un bel giorno infrasettimanale di sole, un pranzo da Betty Cerri, il remake (o revival) di una golden age sepolta dagli anni ma vivissima nelle menti, e nel ricordo. Magenta, lo Sporting Club Peralza, un gruppo di ragazzi di buona famiglia (si diceva allora, oggi non sapremmo), un’amicizia vissuta a cento all’ora, tanto negli anni 80 e 90 non c’erano ancora gli autovelox, e soprattutto al ministero degli Esteri c’era Gianni De Michelis, e non un ex steward dello stadio san Paolo.

Giorni fa, il ritardo è colpa nostra ma (purtroppo) in casi come questi il tempo non conta più, cinque ‘ragazzi’ si sono ritrovati per portare un fiore, e soprattutto condividere un ricordo d’amicizia, sulla tomba di Massimo Venturi. Morto nel maggio di due anni fa; presto, davvero troppo presto.

I ‘ragazzi’ hanno dimostrato che l’amicizia, quella vera, supera l’usura degli anni, del tempo e persino le distanze. Conta esserci stati, aver vissuto, essersi divertiti, aver sbagliato (anche). E’ la vita, dove di perfetto non c’è davvero nulla.

Sulla tomba di Massimo Venturi c’è un nuovo fiore. E tutt’attorno, a Magenta e in diversi luoghi ora del tutto silenti, un vociare chiassoso e divertito, gaudente, come in sottofondo. E ancora ci pare di sentire un giovane baldanzoso, sfacciato ed elegante che ‘squarcia’ la notte: ‘Je suis Venturì’.

Good night, Massimo.

F.P.

Riproponiamo il pezzo che pubblicammo due anni fa

 

MAGENTA – Chi è nato tra la seconda metà dei Sessanta e i primi Settanta, bazzicando Magenta e le sue pertinenze, ‘certe’ pertinenze’, non potrà mai dimenticarlo.

Attese le scuole medie dai padri Somaschi di Corbetta, tra gli spazi pregni di quella bellezza senza tempo che è stata la cifra di palazzo Brentano, dove da decenni i ‘bellissimi di Cristo’, come li ribattezzò Luciano Prada, continuano l’opera educativa di san Girolamo Emiliani.

Fu attore protagonista,  assieme ad altri ragazzi di buon famiglia, allo Sporting Peralza, dove visse l’adolescenza durante i rutilanti anni Ottanta, quelli in cui tra i campi da tennis e la piscina al confine fra Robecco e Pontevecchio regnava un compiaciuto e sorridente Franco Trifone.

Massimo Venturi è morto a soli 48 anni, di malore improvviso, nella sua bella casa fronte stazione. Questa mattina, nella basilica di san Martino, si sono celebrate le esequie funebri alla presenza di mamma Gabriella, del fratello Marco, dei parenti e degli amici.

48 anni sono davvero troppo pochi per lasciare nel dolore senza senso una madre cui tocca in sorte la disgrazia di sopravvivere a un figlio, troppo pochi persino se si pensa a una vita intensa, piena, scintillante, guascona.

La foto postata da uno dei suoi amici più intimi, Lele Cavallotti, peraltro la stessa distribuita stamani sul sagrato della basilica, dice di Massimo Venturi più di quanto queste parole- difficili da vergare per chi ha avuto, sebbene in tempi ormai lontani, una diffusa e prolungata consuetudine con quel ‘certo’ mondo’- possano esprimere, sublimare.

Alto, elegante senza bisogno di ricercatezze posticce, Massimo Venturi era un ragazzo cui la ‘erre’ attribuiva un’allure molto lontana dal provincialismo, che è cosa diversa dalla provincia. Un ragazzo dall’intelligenza acuta, viva, ficcante, educata alla frequentazione del bel mondo, adusa alle notti che si dilungavano in albe, più che in mattine.

Come scrisse Tomaso Staiti a proposito di Gigi Rizzi, Massimo Venturi era capace di trasformare un funerale in una torcida di samba.

Ed era avvinto, come tutti quelli che anche senza impegno diretto hanno sempre cullato una ‘certa Idea’ del mondo, della vita e se vogliamo della politica, da quel modus vivendi incastonato perfettamente nelle parole del sempre ineffabile Massimo Fini.

‘Anche se beve whisky, gioca a poker e ama la notte, come tutti i giovani ben nati l’hanno sempre amata, anche  Gigi Rizzi è un uomo solare e si getterà in quel miracoloso e stretto pertugio aperto fra i Cinquanta e i Settanta con voracità, con tutta la sua enorme vitalità, con la sua simpatia istintiva, col suo charme naturale, con l’eleganza del ragazzo educato bene. E anche con una gran dose di ingenuità. Gigi Rizzi, con tutta la sua esuberanza un po’ incosciente, è, e rimarrà sempre, un «bravo ragazzo», un po’ sprovveduto, nonostante tutto. C’è sempre in lui una sorta di stupore. Il suo stesso successo con le donne (e ne avrà una serie infinita di bellissime, da Silvia Casablanca alla mitica Veruska a Nathalie Delon) in fondo lo sorprende. Ed è forse questa freschezza la ragione più profonda del fascino che esercita, ed eserciterà sempre, su di loro. Le donne saranno, forse, meno innocenti con lui’.

Cambiano gli anni, che ovviamente per Massimo furono posposti rispetto a quelli testè riprodotti, ma non cambia l’esprit.

Quello della borghesia imprenditoriale magentina, fatta di genitori che prima del 1968 frequentavano i locali della riviera o della Versilia, uomini in abito scuro, cravatta e camicia bianca, donne fasciate in vestiti che rimandavano vezzosi alla castigata, proverbiale bellezza della Hepburn in Colazione da Tiffany. Modi, usi, tempi e uomini irriproducibili, di cui si è perso financo lo stampo.

Una borghesia che sapeva stare a tavola ed educava i figli a fare altrettanto, e che ha sempre cercato la tutt’altro che facile impresa di trasmettere la capacità di possedere il denaro. E non di ostentarlo.

Ultimamente abbiamo sempre visto Massimo di giorno, e non di notte. Camminare per le vie del centro di Magenta, correre lungo l’alzaia del Naviglio tra Robecco e Cassinetta, fare la spesa all’Iper in abito grigio e camicia azzurra, complimentandosi con una cassiera per il suo bellissimo sorriso.

Poi, certo, nelle esistenze appunto scintillanti e piene di vitalismo ci sono cose sulle quali chi scrive riflette da sempre, perchè le sente presentissime dentro di sè. Quella sete di Assoluto, quel rimando a domande spesso senza risposta, quel fascino sinistro che certi angoli di buio esercitano, un fascino tetro ed ingannevole, un lato oscuro che ci consuma anche quando cerchiamo di prendere a morsi la vita.

Ci sono le notti, coi suoi pensieri allentati eppure profondi.

‘Innamorati della luna, nelle notti fredde, limpide e serene,  guardavamo i fuochi nella notte di Milano, non erano i falò accesi per scacciare i lupi in una vigilia rivoluzionaria, ma soltanto cupi segnali d’improvvisati mercati dove si vendono e si comprano corpi avariati, non certo l’anima delle cose e della gente, come invece sognavamo. Quelli come noi devono aver patito tristezze metropolitane. Avare. Per degli zingari teneri e crudeli, che amavano bere il fuoco liquido e sognare l’Utopia e la Città del Sole’, ha scritto magistralmente Werther Pedrazzi.

E così si conclude la vicenda umana e terrena di Massimo Venturi, come tempo fa successe a suo padre, Aldo Venturi, nome altrettanto noto a Magenta.

Di certo, una di quelle sempre più rare volte in cui ci capiterà di fare le ore piccole, e piccolissime, risuoneranno sempre quelle parole che squarciarono il buio, illuminandolo a giorno, fuori da uno dei locali più in voga della Costa Azzurra, quella vera… 

‘Je suis Venturì..’. E al polso, a mo’ di vezzoso gingillo, un cronografo importante e rilucente.

Adieu, Massimo.

Fabrizio Provera

 

 

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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