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In morte di Guido Ceronetti, di ET

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Aspetto i petomani da tastiera, la gran canaglia sfinterica che imputrida in asserzioni indicative imperative sull’imperdonabile libertà d’espressione, i travet dello spulcio finanziario, che tutto lì si riduce, l’invidia del danaro e null’altro che null’altro vedono e contano. E sarà un gran smottare di alito verminoso. Già ho intravvisto avanguardie. La causa, se causa sia. Guido Ceronetti riceveva una pensione ex legge Bacchelli, 18 mila euro l’anno. La miseria di una patria perduta in una pagnotta a quattro euro il chilogrammo, al Cairo viene 18 centesimi. Dico del pane ferrarese e dei mugnai Scacerni, il Lazzaro de Il Mulino del Po, di Riccardo Bacchelli, opera epica fluviale della letteratura novecentesca. La legge voluta da due illuminati benefattori della civiltà italiana: il Professore Maurizio Vitale, ordinario di Storia della Lingua Italiana alla Statale di Milano e dal Professore Francesco Di Donato, ordinario di Storia delle Istituzioni Politiche all’università Parthenope di Napoli, entrambi ammiratori dell’opera dello Scrittore. Anno del Signore 1985. Legge Bacchelli, 8 agosto 1985, n 440: “Istituzione di un assegno vitalizio a favore di cittadini che abbiano illustrato la Patria e che versino in stato di necessità”, legge promulgata a firma di Francesco Cossiga (Dio conservi), Presidente del Consiglio Bettino Craxi (Ibidem). In questo dettaglio si coglie appieno la grandezza di un grande paese ancora capace di riconoscere la grandezza che non sarà mai un giudizio sulla persona, sulla sua incapacità di amministrarsi o di essere amministrato, ma su quanto rimane della persona: la sua opera che, in quanto opera, diventa patrimonio collettivo nel quale ci si riconosce tutti e per tutti, ch’è un’astrazione, nella sua concreta declinazione umana: ciascuno di noi. Bacchelli non fece a tempo a ricevere la mercede di una vita, morì qualche mese dopo l’istituzione ma per le imperscrutabili fognature burocratiche l’ottobre 1985 non segnava ancora l’esecutività.

Lo incontrai nella tarda primavera di quell’anno a Monza, per un medaglione che mi era stato ordinato, lo vidi per qualche minuto protetto e accudito dalle sorelle che vivevano in estrema povertà adorando il patriarca della letteratura italiana sprofondato in una poltrona in un alone di medicinali. Avevo ventisette anni e non potevo credere che l’autore del Mulino del Po, di cui avevo anche visto le cinque puntate RAI per la regia di Sandro Bolchi, un gigante della sceneggiatura. Eppure per le ragioni della vita Bacchelli era finito così, e alla mia età, oggi, appare chiarissimo l’oscuro di ieri. Idem per Guido Ceronetti, grandissimo traduttore. Immaginate cosa si ricava dal tradurre, petomani da tastiera? Un pacchetto di sigarette ogni due pagine. Immaginate, bestie da conguaglio, quanti anni ci devi stare dentro un testo? Tutta la vita, morire lì dentro e rinascere come Lazzaro. Sì, Guido Ceronetti percepiva la modestia della Bacchelli. Quindi? E chiudo, Franco Califano, il Califfo, autore di un capolavoro come “Tutto io resto è noia”, con quella strofa di struggente tragedia ‘cominciano i silenzi della sera’ che gli valse la laurea honoris causa dalla Columbia University, rinunciò alla Bacchelli. Si occupò di lui la Contessa Patrizia De Blanck resuscitando così il mecenatismo patrizio che ha imposto la grandezza dell’Italia. Addio Guido Ceronetti.

La pace ridotta a ideologia, intesa come rifiuto sistematico del ricorso alla forza anche quando il diritto lo comandi e la necessità lo consigli è soltanto depravazione morale, masochismo infetto, una sozza impostura. Guido Ceronetti “Pensieri del tè”, Adelphi edizioni.

Emanuele Torreggiani

PS Come ha ricordato Gabriele Adinolfi, non si straccino le vesti i corifei del politicamente corretto: Ceronetti era un grande ammiratore di Celine e sostenne che il capitano delle SS Erich Priebke meritava un funerale. Ricordatevelo.. (RTN)

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