Antonio Pennacchi che Latina la chiama Littoria perché la storia così vuole – come così volle Benito Mussolini piegando la palude pontina – è l’unico ad aver saputo fare epica senza far ridere. È l’artista che ha saputo fare quello che solo Riccardo Bacchelli, col Mulino del Po , seppe consegnare alla viva magia dell’immedesimazione tra scrittore e popolo.
Artista puro, sfiancato dalla fatica della scrittura, Pennacchi che sa distinguere tra l’acciaio e il ferro s’ è fatto carico della memoria delle donne e degli uomini di vanga e zappa per farne canto. Forte di sé stesso – alla testa della sua gente, nel nome dei suoi morti Pennacchi è parola e voce di una saga che mai se ne scivola indietro nel calendario della retorica.
La sua opera – ben oltre i titoli che ne decretano il successo – è il monumento al sudore immacolato delle fabbriche. Se c’è un volto da indovinare nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, ecco: quella faccia è la sua. Lo squadrista sul camion dipinto nelle tele di Ottone Rosai è lui. E lui è il nostro Novecento, l’Italia proletaria fascio-comunista che s’ erge nella conquista delle stelle: la modernità innanzitutto, la coscienza della tecnica, l’urgenza della scienza, la Civiltà delle Macchine e – nella dolcezza della sconfitta – il lutto di tutte le illusioni.
Pietrangelo Buttafuoco
(da Dagospia e Corriere)