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Dall'archivio:

Il ragazzo morto e la cometa. Magenta, giorno nostro

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L’uguaglianza sarà pure un diritto ma nessun potere può trasformarla in un fatto, salvo la morte che è il fatto. Dentro la morte siamo tutti uguali, davanti alla morte ci sono i vivi inconsapevoli del loro morire imminente. Dentro i morti. Il fatto è eguale ai nostri occhi interroganti e sgomenti. La morte di questo ragazzo è identica alla morte di mia moglie, di mio padre, dei molti che ho visto morire, alcuni tenendoli per mano nell’ultimo roco, poi il rattrappito silenzio. E l’immensità della solitudine: un concetto universale ancora da comprendere sebbene lo si condivida tutti ed a tutti, la morte, pur comune è fatto nuovo e irripetibile. Non so nulla di questo ventenne venuto da lontano. E le informazioni di seconda mano nulla dicono, non è infatti l’informazione che si va cercando tra gli uomini ma la comunicazione. Ch’è costruire con gli strumenti dati, il linguaggio, il gesto, il tono, lo sguardo, il silenzio, la lingua franca… l’ellissi che la parola evoca dentro il soggetto ed all’ascoltatore: mamma. Mamma, già il tempo mi ha insegnato che sarà l’ultima parola, se non sussurrata certo rivissuta sul palcoscenico del proprio intimo, mamma, per chiunque. L’avrà gridata nella sua anima, la mamma, all’istante definitivo. Questo ragazzo, archetipo rappresentante dello straniero estirpato dalla sua terra, venuto quaggiù inseguendo la cometa di una vita piena di cose. È null’altro che questo l’Occidente, le cose apparentemente a portata di mano. Purtuttavia l’Occidente con le sue cose meravigliose è gemello del museo dove si entra, si osserva, non si tocca, nulla si prende e alla fine si deve uscire quando suona la campana. L’Occidente, con la sua meravigliosa catasta di roba, la roba, si offre, talvolta in modo sgangherato, solo al danaro. Il danaro è l’unico discrimine dell’Occidente. Non credo che questi ragazzi lo comprendano. Non credo. Irretiti, manipolati, vengono invitati ad abbandonare le loro terre con l’illusione del paese delle meraviglie, già Collodi ne scrisse da par suo, e, a risultato finale, la morte. Sono ragazzi pieni di vita, come tutti i giovani si dirà, ma loro di più del giovane occidentale, già consueto al tramesco del danaro, sono illusi. Niente è gratis, quaggiù, tanto meno un piatto di minestra per cui Dante verserà l’amaro salire l’altrui scale. E ne vengono a frotte, soli, maschi, per lo più da terre dove la povertà non è miseria di fame mortale né guerra guerreggiata. Abbandonano le loro terre, le loro famiglie, i loro amori. Vengono perché anche l’anima vuole le cose, come avrà scritto Agostino, Principe e Santo, nelle sue Confessioni che sono anche la nostra confessione, non davanti a Dio ma davanti all’intimo di quel noi stessi che pone l’equivalenza assoluta con Dio. Che poi, dinanzi alla morte di un ragazzo, qualcuno ne provi indifferenza quando non soddisfazione espressa, è possibile ed umano. Tutto ciò che esprime l’uomo è umano, una carezza tanto quanto un omicidio. La Pietà michelangiolesca tanto quanto il campo di sterminio. Comprensibile, si coglierà, non significa condivisibile. E Facebook, nel suo ampio spettro, illustra, in modo oggettivo, lo stato della comunità. Ciascuno poi giudichi come crede, sapendo quanto sia più facile, nel significato negativo potente, condannare. Il giudizio è complesso, cioè piegato dentro e per dispiegarlo occorre discernere, saper dividere e poi ricomporre. Un sapere prossimo alla teologia, alla metafisca, alla mistica. Non certo l’attribuzione automatico di un codice. E inoltre si consideri il peso specifico del silenzio dell’immensa moltitudine che non partecipa alla cosiddetta discussione. Io vedo solo un ragazzo ventenne morto in una baraonda, travolto dalla vita, lontano, tanto lontano dalla sua mamma. Lontano come lo sono tutti i morti, giovanissimi e vecchissimi, ai quali noi si deve solo la verità. Iddio lo avrà già accolto in cielo.

 

 

 

 

 

E.T.

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