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Dall'archivio:

Il porco. A proposito di Donald Trump e di tutto quello che i giornaloni (e le tivvù) del bel paese non vi raccontano

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Il porco è un quadrupede, predicabile anche per un bipede nello spregiativo colloquiale. E il quarantacinquesimo presidente a stelle e strisce, alla anagrafe Donald Trump si è guadagnato la patente di porco. Che porco sia però non ce lo raccontano i giornali e le televisioni, di Stato e Parastato, del bel paese. Ancora afflitte dall’uscita di scena del Premio Nobel per la pace Barak Hussein Obama, il presidente in smoking che passa alla cronaca come mangiatore di broccoli coltivati dalla mugghiera nell’orto della Casa Bianca, e fotografato in posa pensosa broccolando tra le prose seminate. Gli subentra il porco coi capelli simil setola marca Cinghiale, votato dal popolo americano, quella gentaglia ‘deplorables’ come ebbe e dire Hillary Clinton, la moglie ombra di Bill, incontenibile chiavatore del continente puritano, e, ovviamente, il porco, è immediatamente bollato come razzista. Va da sé, il porco è un repubblicano. E i repubblicani sono razzisti per automatismo. Infatti il porco conia lo slogan ‘American First’. Due lettere scarlatte che lo conducono alla Casa Bianca il 20 gennaio del 2017. In un anno e mezzo di porcile come ha grufolato il porco?

 

Secondo Black Enterprise, la rivista specializzata che segue le imprese gestite dai neri, le aziende, tutte piccole e medie, di proprietà di persone di colore sono cresciute del 400%. Porco. Poi, nel quadro dell’accordo commerciale USA Messico, relativo ai dazi sulle automobili, il porco ha stabilito che le automobili costruite in Messico e vendute con marchio nordamericano, dovranno avere una componentistica del 73% di produzione diretta nordamericana, soprattutto acciaio e leghe composite, e, inoltre, che la paga oraria di un operaio messicano non possa essere inferiore al minimo di un lavoratore USA, cioè sedici dollari l’ora. Il porco obbliga a pagare i campesinos che lavorano per Ford e GM e Aftermarket etc… al doppio dell’attuale. Porco. Poi ha tagliato il prelievo di tasse del governo federale per millecinquecento miliardi di dollari. Ha messo a dieta la burocrazia liberal, quella che broccola tra Capitol Hill ed il lounge bar dello Sheraton interrogandosi sui massimi sistemi: “ma il mondo esiste e se esiste che mondo c’è là fuori? Cameriere, un martini dry ed un bloody mary”. Il taglio delle tasse ordite dal gran porco ha portato ad una disoccupazione del 3,9%, all’aumento dei consumi del 4,3%, alla crescita del Pil del 3%, la più alta degli ultimi tredici anni, crescita che ad oggi, agosto 2018, segna il 4,1% su base annua. La Borsa ai massimi e l’indice Nasdag ha sfondato il muro degli 8000 punti. Nel secondo trimestre del 2018 sono stati aperti centottantacinquemila negozi e la retribuzione nel comparto commerciale, per addetto, è cresciuta del 4,7%. Un autentico porco. Un porco di destra che riesce a fare il lavoro della sinistra: ridurre la povertà. A volte i porci.

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