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Il Papa

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Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

Pernottammo, quei pochi giorni, in un albergo “sudicio e sfarzoso” a poche miglia da Zagabria. Il settembre del 1994 era caldo di quel tepore che richiama la carne di un corpo amato e sazio. L’alba ci vide in marcia. Le strade che conducevano all’ippodromo erano già sorvegliate dalle truppe. Una mimetica ogni cento iarde a fronti contrapposti. Camionette blindate, carri leggeri d’assalto, camion telati, elicotteri in volo. Durante la notte una pioggia di passo aveva purificato l’aria che, entrando dal finestrino aperto del nostro fuoristrada, sapeva di erba viva e di quel fumo da legna che fuoriusciva azzurro e alto dai camini a misura delle minute case ai lati delle strade pattugliate. Ci fermammo ad una stazione di servizio aperta per un caffè dove incrociammo militari in assetto da battaglia. Un ufficiale perplesso controllò minuziosamente i grandi pass gialli che indossavamo a collare: nome e cognome, fotografia, timbro e firma del ministero di rilascio. Chiamò con un radiomobile e monosillando annuiva. Il destino della vita, gli incontri, le relazioni, così accadde che i nostri li avesse firmati personalmente il Presidente Franjo Tudman e consentivano di attraversare ogni luogo, a piacere. Avanti un mezzo miglio nella luce ancora fredda vedemmo le avanguardie. Era il popolo in marcia. Alla sera, rientrati nel massimalista albergo dell’era socialista, i telegiornali annunciavano che almeno due milioni di fedeli avevano assistito alla santa messa celebrata da Giovanni Paolo. Ippodromo di Zagabria, 11 settembre 1994. Uomini, donne, bambini. Tutti venuti da quelle terre slave dilavate di sangue in cui la guerra civile era ancora febbricitante. E con ogni mezzo. Auto, pullman, trattori, carri tirati da buoi e, non ultimo, moltissimi, moltissimi a piedi. In una marcia che era durata anche una settimana, ed altrettanto per tornare. L’accolse un boato nel grande campo dell’ippodromo. Nei pochi metri dall’auto all’altare, a distanza nostra d’un braccio, le bianche nocche della sua mano destra aggrappate al vincastro, la fatica del respiro in quei passi in salita, il volto ferito in verticale dalla vita, pensai che sarebbe morto di lì qualche ora, forse pochi giorni ma furono poi anni: undici. E, inginocchiato sull’erba, tutto il popolo minuto a ringraziare Dio in un solido silenzio che uno scultore avrà scolpito. I potenti di quegli anni schierati nelle prime fila, rattrappiti dentro la propria coscienza sotto il sole alto. Pianse un neonato. E Giovanni Paolo II l’indicò. Indicava la vita, l’innocenza.

E.T.

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