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Il pane è vita – Per l’ex Saffa, luogo del cuore Fai, di Emanuele Torreggiani

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In merito al tema Saffa di Pontenuovo e all’attuale possibilità di salvarne le vestigia, firmando sul sito del FAI, lodevole iniziativa di Andrea Cairati, ripropongo un mio scritto del 2015 in occasione della mostra sulla Saffa voluta e organizzata dal Sindaco di Magenta Marco Invernizzi.
C’è ancora poco tempo per votare l’ex Saffa come luogo del cuore Fai, al link: 
https://www.fondoambiente.it/il-fai/grandi-campagne/i-luoghi-del-cuore/
Quando suonava la sirena.
La mattina, alle otto meno un quarto, partiva in sordina per montare in breve a urlio monotono che nelle giornate di secco copriva la pianura in un arco di tre e anche quattro chilometri e nelle giornate di nebbia, allora la caligine era il costante grigio nebbione grave e profondo, mostrava un suono vellutato, come il suggerimento dal provvidenziale bisbiglio per gli studenti che si arrabattavano con lo scritto di trigonometria. Riascoltato con l’orecchio e l’occhio di oggi, di quell’adesso enigmatico nel quale misuriamo il nostro malcerto andare, quella sirena, allora così indiscutibile nella sua irritante chiamata dal sigillo militare, quella sirena era un canto.
Poeticamente abitava l’uomo su questa terra, ed il poetico del suo abitare era il fare.
Il suo operare.
E mentre la sirena andava spegnendo il suo canto al quale nessuno poteva resistere, come ebbe a scrivere Omero anticipando dal lontanissimo suo passato il nostro vicinissimo e ormai desolatamente estinto, per le vie della Magenta, città industriale, echeggiavano a migliaia i rocchetti delle biciclette e lunghi scampanellii di saluto. Legnano, Bianchi, Atala.
Gli impiegati di concetto o i dirigenti, la camicia bianca e la cravatta neutra era rigore, si concedevano il prestigio di una Umberto Dei con i freni a bacchetta e al sottosella l’astuccio degli attrezzi in vera pelle chiuso con fibbie d’ottone lucente. Si pedalava, al lavoro.
Il gran popolo degli operai, ecco due parole perdute dal nostro vocabolario quotidiano, popolo e operai, in giubba di panno tagliata appena appena sotto l’anca e basco per gli inverni che già al limitare del novembre mordevano di gelo, e casacca e calzoni blu per le altre stagioni e, se la canicola opprimeva, giusto le maniche delle camicie a scacchi rimboccate al gomito. Scarponcini sempre per tutti gli operai, e si accendevano anche discussioni sulla qualità della suola, la migliore indubbiamente il Vibram: un carro armato da farci il giringiro dell’intero mondo. I colletti bianchi si presentavano dietro la scrivania in scarpa nera lucida come il marmo del 2 Novembre.
I portoni delle fabbriche erano spalancati e accoglievano quella moltitudine sciamante ai loro reparti, ai loro macchinari, ai loro attrezzi dentro le teorie dei capannoni costruiti con mattoni, campate di legno e coperture a tegola. Ampie le finestre dai telai in ferro che si andava a risparmiare sul costo dell’EdisonVolta, l’Enel e si scorgeva, pur intenti al lavoro, i colori del giorno.
Rivedendoli oggi i portoni alti, serrati come da sempre, eleganti nella fattura con l’aste nella forgia di lancia spartana che il ruggine dei decenni e della correlata morte impreziosisce come dissepolto bronzo degli ipogei, rivedendoli in quell’allora che furono aperti e più ancora spalancati al creato per mostrare la forza dinamica del mondo nostro: quello del lavoro. Allora, se avessimo scritto questa nota, sarebbero sembrati, i portoni spalancati, la gran bocca della balena che inghiotte il piccolo Giona. E a migliaia si fiondavano lì dentro pedalando in quel volteggio febbrile da alveare, dentro ad infilare la ruota anteriore nelle impennate, e nessuno che serrava il lucchetto a scatto, e poi via, ai reparti, alle officine. All’opera del giorno.
Alle otto, quando la campana lassù sul campanile, l’autentico din sulla vetta antica, chiudeva l’ultima chiamata della sirena, la fabbrica già risuonava del lavorio che avrebbe battuto il tempo sino alle dodici e trenta. Era, la fabbrica o in detto popolare il fabbricone, l’arnia produttiva dentro il mondo ancora agricolo della città, dei paesi, delle contrade, delle cascine. Infatti, non appena s’apriva uno spiraglio, c’era la possibilità di fare ‘la domanda’, si lasciava la terra e la stalla ereditata per entrare a guadagnare ‘il pane a vita’. Dentro, al riparo dalla siccità, dalla grandine, dal gran freddo, dal gran caldo: il soffocone delle estati estenuanti, dalle albe livide degli inverni fumiganti.
Al lavoro con la schiena rialzata, finalmente!, dal gran basso ch’è la terra che andava spezzando la schiena da generazioni e generazioni e per generazioni. Dentro la fabbrica il pane a vita. Otto ore al giorno più gli eventuali straordinari pagati al cottimo, le ferie, le feste comandate regolate a turni, ‘i bollini’ in regola per la lontana ma certa pensione, la gratifica e la liquidazione, la mutua e gli infortuni, le colonie estive e il medico in ditta e il pacco natalizio per i figli distribuiti il giorno dell’Epifania di Nostro Signore che, della di Lui presenza incombente e regolante, nessuno dubitava. E anzi, nel giorno celebrativo del Santo Patrono il signor Parroco a celebrare la Santa Messa e tutti i reparti schierati a ranghi compatti nel piazzale antistante l’ingresso ampio come piazza d’armi. E l’ora della Santa Messa pagata a fior di conio.
E lì, gli sguardi dei più giovani indugiavano sulle spalle delle operaie che, chinando il capo e ridendo di quel riso ch’è squarcio di felicità, rispondevano sottecchi. La gonna un palmo sotto il ginocchio ed il grembiule un palmo ancor più sotto. Poi si tornava ai reparti mentre i più arditi, indugiando lungo i viali interni fioriti come tele degli impressionisti che mai conobbero in vita, coglievano un fiore ch’era pegno di quel ‘per sempre’ che avrebbero declamato, sdrucciolando la esse, nella chiesa gremita di familiari, parenti e squadre di compagni di lavoro. Per le nozze la grande fabbrica prevedeva la licenza. E i due sposi, che ivi lavoravano, rappresentavano, agli occhi del parentado riunito, una forza economica.
Il lavoro alla fabbrica, la vigna che andava a orto, le galline, i conigli, le anatre, le oche. Qualcuno si teneva anche le mucche che accudivano i vecchi e governavano il maiale tirato su con gli avanzi della cucina. Una vita cenobitica, era quella, dove la grande fabbrica aveva preso il posto delle grandi cascine cistercensi. E soprattutto il lavoro nella sua espressione di servizio permanente effettivo. La produzione. La sicurezza garantita dal contratto stipulato e firmato con grafia incerta e la correlata prospettiva del lungo futuro ed un passo anche oltre: infatti le grandi aziende garantivano un contributo per le esequie.
La vita non più né incerta né enigmatica e quindi la manifesta possibilità, per la prole, di iniziare la scalata sociale con gli studi. Era un dire d’umile orgoglio affermare che il figlio studiava, non si fermava e riusciva. E aggiungere, a motto scaramantico, che mal che andasse qui dentro posto ce ne sarebbe stato anche per lui. E poiché l’operaio amava il suo lavoro ed in esso si riconosceva, soprattutto nella meccanica, il più intraprendente, dopo un decennio di dura gavetta in fabbrica, si andava a mettere in proprio. Mi son messo in proprio, con ancora le maniche della camicia rimboccata fin sugli avambracci dai muscoli nervosi. Nei dipressi delle grandi fabbriche madri nacquero, come figli cadetti, le piccole aziende che avrebbero, con la fabbrica madre, portato quella prosperità lavorativa ed economica che il grande Carlo Emilio Gadda, il primo ingegnere della sua stirpe, chiamerà ‘i progressi’.
Poi… poi questo ingranaggio d’ingegni collettivi che andava restituendo al territorio la prosperità dell’azienda, questo gran meccanismo che sembrava potesse continuare a ruotare all’infinito, come fosse il ciclo che ordina l’andare delle stagioni, prese a rallentare. S’inceppò, ed alla fine si ruppe, fermandosi. Fermo, esattamente come il meccano che si tiene in soffitta e che finirà, al prossimo trasloco, in discarica dentro il container dei ferri vecchi. Fermo causa il fare di ciascuno e causa il fare di tutti. Finito, come sono finiti gli imperi, i regni, i principati.
Così è finito quel mondo che noi abbiamo visto con i nostri occhi, udito con le nostre orecchie e partecipato con la nostra vita essendo, noi, figli di quegli operai, di quegli impiegati di quei dirigenti, che si dedicarono ai primi alti studi della famiglia. Di quella moltitudine che fu il popolo.
Oggi le sirene non cantano più. Pur tuttavia noi andiamo avanti. Soli, dentro un giorno che ricomincia daccapo la mattina dopo. Nell’enigma del nostro presente e quando passiamo davanti alle grandi fabbriche esse ci mostrano i corpi spolpati come balene arenate, noi giriamo il volto che quella vista ci fa male dentro il cuore e dentro l’anima. Ci fa male dentro la nostra vita che vediamo, prossima al lungo tramonto, sfuggirci da quella prospettiva desiderata per i nostri figli che stanno preparandosi a partire e vanno via. Moltissimi per sempre per nuovi progressi che qui non saranno.
E lasciano queste terre, le case dei padri e il loro fare. Vedere gli opifici deserti e abbandonati come antiche chiese sui cui tegoli dissecca l’erba, per noi che le vivemmo all’opera dei giorni, equivale a ri-seppellire i nostri padri in un solido, costante dolore.
Emanuele Torreggiani

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