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Dall'archivio:

Il comunista con la lince, di Emanuele Torreggiani

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L’ultima volta che lo vidi era incassato. Il suo desiderio di essere sepolto in divisa da tramviere era stato assecondato da sua moglie. E poiché Ottavio era in pensione ormai da anni e leggermente ingrassato, lei stessa gli aveva scucito la giacca lungo la schiena per poi puntarla con spille scure che non si scorgessero. Il panno sembrava stirato. A capo dei piedi calzati il berretto con la visiera. Sotto le mani incrociate Alba, la moglie, gli aveva infilato un’immaginetta di San Luca “che male non gli farà per certo”. La bara nella camera da letto. Sul comodino, dove lungo i decenni si era coricato, due piccoli bronzi di pregevole fattura: Carlo Marx e Vladimiro Ulianov Lenin. Lo guardai consapevole dell’ultima volta. Ottavio Baffé, tramviere, colonnello di una sezione di partigiani garibaldini che operarono militarmente dal Quarantatré al Quarantacinque nell’appennino tosco emiliano, ricercato, condannato a morte in contumacia dal gaulaiter germanico, medaglia con citazione post bellica, aveva ripreso il suo operato di conducente di tram, comunista, “integerrimo comunista sovietico”, così lui, mi parlò di quegli anni con il riserbo di chi ha davvero impugnato le armi. E sa cosa possono. Era del Tre, Novecentotré. Per un periodo fu segretario della sezione comunista del quartiere bolognese di san Ruffillo, laddove le strade prendono a salire verso i monti della Tolfa. E l’inverno è più crudo che sotto le due torri. Era mio zio. Li ho avuti in casa tutti. Mio padre, Remo, in guerra dal 1939 al 1945, sottotenente di artiglieria. Mio zio diretto, Romolo, renitente alla chiamata per la campagna greco-albanse, saltò giù dalla tradotta in terra friulana e si diede alla macchia per un paio d’anni, lavorando come bracciante agricolo in quelle lande “c’era fame di uomini giovani” disse poi in quel sottotraccia di permanente ironia, poi rientrò e mai svelò come. Mio zio Marino, acquisito, capitano della milizia fascista, si fece largo tra i compagni che gli volevano fare la pelle il 25 aprile del Quarantacinque a raffiche di mitra, e si rifugiò tra i monti della Tolfa dove svernò, per poi rientrare e riprendere il suo lavoro. Quando si incontravano, per occasioni familiari, si davano del Lei, salvo mio padre con suo fratello che si davano del Voi. Uno spettacolo di granitico silenzio, “prego prima lei” “ma ci mancherebbe, servitevi voi”, degno di Samuel Beckett, che le donne imbastivano intessendo dolci e bottiglie di vino e caffè. Lo zio Ottavio non perdonò mai la chiusura della rete tranviaria nel 1952 per essere sostituita da filobus e bus. “Anche noi abbiamo ceduto alle direttive dei capitalisti”, mi disse ripetutamente nel corso dei decenni, sottintendendo la Fiat di Agnelli. Allora mi sembrava un’iperbole, oggi un accettabile verità. Lo vedo lì. Disteso nella frattura che la morte impone alla vita. Pallido, lavorato il volto alla bronzea cera. Il vento che scuote la carne in ogni penombra aveva deviato. Dopo le esequie, mia zia lo portò in chiesa, dopo la seppellimento, dopo i saluti, dopo tutti i dopo, mia zia mi consegnò un involto in carta velina infiocchettato con un nastro rosso. Quando lo scartai mi trovai la tre mani un morbidissimo pelo. Era un collo, un bavero di pelliccia di lince che lo zio Ottavio aveva acquistato in Unione Sovietica nel viaggio, pellegrinaggio, a metà degli anni Settanta. Aveva preso anche un copricapo di astrakan ed un tappeto moscovita rosso con falce e martello giallo. Non l’aveva mai portato. Era una lince siberiana. Credo presa con le trappole dai grandi cacciatori che lassù caracollano tra i quadranti dei fusi orari. La lasciai in un cassetto per anni e anni. Recentemente la scartai. Indossai il cappotto blu e gli adattai il collo che mi dava un effetto da stella del cinema anni Sessanta. Un po’ troppo anche per me. Carezzai quel pelo morbidissimo e caldo e li vidi tutti. Più che le voci, i gesti composti, misurati. Erano tutti figli della guerra. Ora sono tutti morti. Non si finisce mai di morire su questa terra. Lo vidi traversare la Piazza Rossa ed entrare al Mausoleo. Sono certo che indossava il suo abito ben stirato, la camicia bianca, la cravatta ben annodata, ed il cappotto nero, il cappello nella mano destra che salutò Validimiro Ulianov Lenin con il sinistro a pugno chiuso, come si conviene. Che sapeva cosa sanno fare le armi, come lo sapevano tutti di quella banda. E lo so anche io. Infatti sono figlio loro. Allora sono andato da un sarto albanese che lavora in Magenta. Lì, lungo la via Novara, uno stambugio ad uso laboratorio. Bravo quanto basta per dire se sa fare o se non sa fare. Si chiama Goga. Anche la sua sarebbe una bella storia che un giorno mi piacerà raccontare. Gli ho mostrato il collo e la foto di un colbacco da cosacco. Ha realizzato una sagoma di cartone, tagliato la pelle, imbastita, provata, cucita. Perfetta. Indosso un colbacco di lince acquistato da mio zio “comunista integerrimo”, alla metà degli anni Settanta in Unione Sovietica. Una lince presa alla trappola da un cacciatore siberiano. Sono tutti morti. Tutti. Per così dire, che io me li trascino dietro. E con loro altri. E non li lascio di certo morire. E la lince me la porto a spasso. Oggi, sul tardo pomeriggio eravamo in Duomo. E per quanto facesse freddo per la lince era primavera. E anche per me. Colbacco cosacco per sempre.

E.T.

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