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Dall'archivio:

Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

La ‘premessa’ a Il Cavalletto, il nuovo romanzo breve del professionista magentino Ivan D’Agostini che Ticino Notizie pubblicherà in esclusiva, ha avuto un grande successo tra i nostri lettori. Siamo quindi orgogliosi di presentarvi il primo capitolo di questa come sempre bella opera di Ivan, che pubblicheremo sempre alle 20.30, due o tre volte la settimana. Che altro dire.. Seguiteci, ne varrà la pena. Buona lettura!

 

Voglio raccontare una piccola storia, semplice ma che potrebbe essere emblematica per come si possono vedere le cose.

Questa storiella inizia al Caselle di Sopra, un piccolissimo borgo (quattro case, ma veramente di numero: uno, due, tre e quattro, anche perché di più non ci stavano nel pianoro, tecnicamente una frana pliocenica) nel comune di Pecorara, incastonato tra i boschi della Val Tidone.

Circa trent’anni fa, quasi per gioco, abbiamo, io e la Li (il nome per esteso di Laila, sposata il 5 aprile del 1984 a Villa Reale, conosciuta anche come Villa Belgioioso o Villa Belgiojoso Bonaparte, opera dell’architetto Leopoldo Pollack), in quel della città di Milano), comprato quattro sassi (come li aveva definiti il mio babbo) e da subito abbiamo iniziato a “trafficare” con tanto, per farvela breve dopo poco di un anno avevamo un tetto sopra la testa nostra e della piccola Melly che nel frattempo aveva visto la luce (senza dimenticare che dopo sei anni si è aggiunto il piccolo –allora- Luca), e questo tetto andava, specialmente d’inverno, riscaldato. In mezzo al bosco di legna ce ne è veramente tanta e le robinie, accidenti a loro, crescono con la velocità del fulmine; anzi, le “cacciate” (i nuovi butti) arrivano anche a misurare quasi tre metri di lunghezza e dal diametro di almeno 5 cm alla base, da qui la necessità di contenere alcune crescite. In particolare, una robinia, che mi dispiaceva e mi dispiacerebbe tagliare, ha un vigore inaspettato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dunque sono anni che la povera pianta –così direbbe il mio buon vecchio amico Mario, architetto paesaggista di fama nazionale- viene capitozzata, tanto che all’inizio della primavera è orrenda, ma subito dopo marzo/aprile inizia ad emettere nuovi butti, che realizzano una bella chioma già a far tempo dal maggio successivo. In genere quindi, a fine novembre o ai primi di marzo, provvedo a tagliare i rami spogli che vengono collocati su di un piano di legno, un compensato marino, che appoggia su due cavalletti che ho realizzato agli inizi di questa avventura. Se vi state chiedendo perché li colloco lì, la soluzione è presto data: sollevati da terra non si inumidiscono e, coperti come sono da un secondo piano di compensato, non si bagnano –troppo- quando piove, così a settembre sono pronti per essere usati (a coordinare i tempi ci si abitua e si presta attenzione a tenere conto di una sorta di orologio del tempo, invisibile materialmente, che è scandito da alcuni comportamenti delle cose, che suonano un ritmo e funzionano come una specie di metronomo universale).

Dunque i cavalletti e la casa hanno circa trent’anni ma aimè, mentre la casa è in solida (almeno così si spera) muratura, i cavalletti sono di legno e quindi caduchi; è capitato così, che dopo questo lungo tempo al servizio di sostegno dei rami lasciati all’esterno ad essiccare (cosa ne faccio è un’altra storia che comunque si intreccia con i cavalletti e che vi racconterò più avanti), i poveri sostegni hanno iniziato a dare segni, estremamente visibili, di cedimento, e a nulla sono valse alcune mie sporadiche cure, deboli interventi: qualche chiodo là, una vite qua, un rinforzo nel basso e qualche altra manovra, i poveretti, quest’anno appena passato, sono definitivamente crollati a terra!

“Umhh che fare?” mi son detto. Pensa e ripensa, li ho sollevati, con cura s’intende (eh dopo tanti anni di onorato servizio, vorrai mica buttarli nella ruera[1]) e, mentre uno si apriva letteralmente sotto le mie dita, che nel frattempo si erano gelate per via della temperatura polare (eh si poiché in Val Tidone e, in special modo al Caselle di Sopra, fa un freddo boia, primo perché si è in mezzo al bosco e poi perché siamo sotto la cresta alta del Monte Aldone che, così guardando a Nord per quasi un mese buono dell’inverno, il sole non si vede e non riscalda), l’altro teneva a fatica.

Dunque, quelle assi le ho collocate in cantina, quella sotto la veranda, con il solaio di cemento, l’unico della casa ad essere stato realizzato in quel modo (così fa da contro spinta, aveva anche assicurato il mio amico Oliviero[2], ingegnero in Magenta e mio amico sin dai tempi delle medie). Protette e al riparo da vento, acqua e sole, esse si sarebbero asciugate lentamente e a quel punto avrei deciso cosa fare.

[1] Ruera: termine dialettale del milanese che definisce una sorta di spazzatura, ma a mio modo di vedere le cose, non quella proprio inservibile bensì un qualcosa che ancora si può in parte tentare di recuperare.

[2] A Oliviero penso dedicherò un capitoletto, ma più che solo a lui, molto alla mia passione per il disegno che tanto ha sacrificato alcuni mie compagni dell’istituto tecnico sul tavolo da disegno.

Continua

 

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